La sensazione ultima che aleggia nella sala alla fine della proiezione di La femme du cinquième (diretto dal regista polacco Pawel Pawlikowski, già autore di My Summer of Love e Last Resort) è quella di una densa perplessità. Una perplessità che trova ampia ragione d'esistere nei confronti di una pellicola che sembra avere alte ambizioni autoriali e che finisce invece per risultare inconcludente, straniante e per certi versi addirittura incomprensibile.
Tom Ricks (Ethan Hawke) è uno scrittore americano (di un unico romanzo ben accolto dalla critica, e che rappresenta per l'uomo il suo più grande successo ma forse anche il focolaio dei suoi più temibili spettri) che giunge a Parigi per poter ritrovare un contatto con la figlia di sei anni (Chloe), alla quale non gli è permesso avvicinarsi per un'ordinanza del tribunale. Giunto dunque a Parigi, in casa della moglie, Tom verrà però messo subito alla porta dalla ex-consorte, che vede l'uomo come un terribile pericolo (le ragioni di ciò non saranno mai chiarite) per sé e per la figlia. Messo in fuga dall'arrivo della polizia (chiamata per l'appunto dalla moglie) e derubato di tutti i suoi averi su un autobus, l'uomo si ritroverà poi a dimorare in una fatiscente pensione di infima qualità, dove il proprietario (per farsi ripagare dell'alloggio, dal momento che Tom non ha più neanche una lira) gli proporrà di lavorare per lui come vigilante di un monitor che controlla l'ingresso di uno strano e losco sotterraneo, frequentato da gente tutt'altro che raccomandabile; lavoro che Tom accetterà pur di continuare a vivere vicino alla figlia, che può solo ‘spiare' tramite le grate e le sfocate lenti di quella dolorosa separazione. Nel frattempo però, durante una serata letteraria, Tom incontra una misteriosa e affascinante donna (ovvero Margit - Kristin Scott Thomas - ex moglie di uno scrittore ungherese) con la quale condividerà qualche appuntamento - a sfondo prettamente sessuale - nell'appartamento di lei al quinto piano di un misterioso (anch'esso) palazzo. Ma i misteri non finiscono qui perché Tom, uomo e scrittore con una turbolenta e indefinita 'vita interiore', finirà poi per rimanere invischiato con i brutti ceffi che frequentano il proprietario della pensione, e scoprire che la sua esistenza sta assumendo uno strano e sempre più pericoloso volto.
Spaesamenti registici
A fronte di una prima parte ben costruita che nasce e trova il suo spunto narrativo nelle suggestive, sfocate sequenze della rigogliosa foresta (che ha ispirato il libro) che anima la mente di Tom (che conosciamo a poco a poco come un uomo smarrito dietro ai suoi grandi occhiali, evidentemente vittima di una ‘visione' della vita non proprio lucida), segue una seconda parte che invece naufraga nel fitto sottobosco di quella stessa realtà, proiezione o allucinazione partorita dalla mente dell'uomo. Infatti nel momento in cui Tom conosce Magrit (punto di svolta della storia), il suo universo comincia a popolarsi di persone e situazioni che fotogramma dopo fotogramma sfumano sempre di più in indecifrabili proiezioni della mente. Molti tasselli di un puzzle che il regista non riposizionerà mai, lasciando invece all'oblio dell'interpretazione i troppi dettagli di un thriller che finisce per perdersi in quel labirinto di onirico e reale costruito dallo stesso Pawlikowski, e che sacrificano anche la bravura di due validi attori come Kristin Scott Thomas (relegata in un ruolo che sembra mancare completamente di spessore) ed Ethan Hawke (impigliato in un personaggio privo di forza, che subisce gli altri e sé stesso con la stessa fatale rassegnazione). Un lavoro caratterizzato da alcune belle sequenze e da un seducente incastro di immagini di una natura che sembra continuamente sfuggire all'inquisizione dell'occhio, come d'altronde fa il film, apparentemente impegnato a inseguire un orizzonte che (di fatto) non raggiunge mai.
Pawel Pawlikowski traspone su grande schermo il romanzo Magrit di Douglas Kennedy, traendone un film esteticamente curato che annaspa nel tentativo di costruire un thriller cerebrale giocato sul labile confine tra realtà e mondo onirico, e soprattutto cha manca di mettere in piedi tutti quei rimandi e quei legami necessari alla storia per liberarsi (strada facendo) dell’armatura immaginifica e dare invece senso ai reali elementi dell’impianto filmico. Resta a conti fatti un film dalla forte tensione autoriale che si brucia nella voglia di trovare nell'assoluto non-senso una interpretazione/semplificazione ai cupi meandri della mente.