All'ombra di Parigi, in una cittadina di periferia, Xavier Racine (Fabrice Luchini) è un solitario giudice temuto al punto da guadagnarsi l'appellativo di "presidente a due cifre": chiunque passa sotto il suo giudizio in corte d'assise riceve sempre una pena di almeno dieci anni. Solitario e silenzioso, passa le sue sere in albergo ed i suoi giorni in tribunale, una routine senza emozioni che continua tra un caso e l'altro fino all'assegnazione di un particolare collega: nella giuria popolare arriva infatti Ditte Lorensen-Coteret (Sidse Babett Knudsen), che si infila prepotentemente nei ricordi e nel cuore dell'algido giudice cambiando le sorti della sua vita nello spazio dei tre giorni del processo. in La corte è proprio la coralità della giuria l'elemento più interessante: all'interno di un processo è facile trovare un vero e proprio spaccato della nostra società, quasi come se l'aula fosse un teatro in cui portare in scena una performance. Gli aspetti più interessanti della pellicola riguardano il dettaglio delle gestualità, dei riti da portare avanti ogni giorno davanti e dietro le quinte: la vestizione, quasi come se le toghe fossero gli abiti di scena, i gesti del Presidente di giuria prima di suonare il campanello ed aprire la porta, somiglianti ad uno scaramantico rituale da performance. Le azioni si accompagnano all'oralità, ad un metodo con cui si giura, si chiede e si ascolta in attesa di scoprire una verità che in realtà, come spiega il protagonista, è davvero difficile - se non impossibile - trovare.
Buoni spunti ma una mescolanza di genere poco convincente
Il peccato più grande di Christian Vincent non sta nelle intuizioni né tantomeno nel soggetto, ma nella realizzazione - che cerca di ispirarsi alla più classica commedia francese ma ne manca di brio, risultando al contrario eccessivamente piatta in tutto lo svolgimento. Ci si lascia affascinare quasi subito dal protagonista, dai suoi maniacali bisogni e dalla sua peculiare rigidità, ma altrettanto facilmente la sua evoluzione ed il suo rapporto con Ditte si perdono nel piatto deserto generale, che non viene risvegliato nemmeno dall'ottima interpretazione di Fabrice Luchini: il suo giudice - o meglio, Presidente, come ama puntualizzare lui in processo - si fregia dei migliori momenti e anche delle migliori battute del film, che Luchini porta avanti con estremo acume senza mai forzare la mano ma anzi, riuscendo a modulare perfettamente la sua evoluzione rendendo il personaggio estremamente credibile. Ciò che rimane interessante è comunque lo studio antropologico dietro il caso giudiziario, mero pretesto, ed il rapporto tra quest'ultimo e le diverse personalità dei giudici. Peccato che la superficie di un tema così interessante venga solo sfiorata e non riesca invece ad essere scavata più a fondo, lasciando lo spettatore al suo lieve senso di curiosità non adeguatamente stimolato.
Partendo da un dualismo tra la corte giudiziaria e la vita del suo presidente, Christian Vincent mette in scena un interessante studio antropologico fatto di gestualità, riti, riflessione poetica ed umana indecisione. Peccato che questi elementi rimangano solo accennati in superficie e non vengano approfonditi, nonostante le ottime interpretazione di Fabrice Luchini e Sidse Babett Knudsen.