Recensione La chiave di Sara

Il terribile episodio del Velodromo d'Inverno del 1942 raccontato da Gilles Paquet-Brenner

Recensione La chiave di Sara
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Se Schindler's List ha, a suo tempo, sollevato il velo sulla spinosa questione della necessità di rappresentare l'irrappresentabile, ovvero la Shoah (rappresentata a oggi in maniera puramente ‘testimoniale' solo dal 'silente' e inquietante documentario di Claude Lanzmann), è pur vero che il film di Spielberg ha aperto il varco a un cinema che si muove lungo il sentiero (necessario) del ricordare per non dimenticare, sdoganando altresì il tabù sulla possibilità di riportare alla memoria terribili pagine di storia attraverso racconti di finzione. Solo un anno fa, in occasione del 27 gennaio (Giorno della Memoria della Shoah) usciva Vento di Primavera, una coproduzione tra Francia, Germania e Ungheria, anch'essa incentrata sul tragico - e non troppo noto - evento che nel lontano luglio del 1942 vide 13mila ebrei francesi finire ammassati - in inumane condizioni e per mano della stessa polizia francese - in un velodromo, prima di essere reindirizzati nei campi di concentramento nazisti. Ma ad accomunare Vento di Primavera e La chiave di Sara non è solo la tragica vicenda attorno alla quale ruotano entrambi i film, ma anche il penetrante occhio ad altezza bambino attraverso il quale lo spettatore viene a conoscenza dei fatti (alcuni e molto semplificati, è il caso di dirlo). E se nel film di Rose Bosch gli orrori prendevano forma tramite l'occhio di Joseph, soli dieci anni e già testimone di orrori indicibili, in La chiave di Sara (trasposizione cinematografica dell'omonimo best seller di Tatiana de Rosnay) sono gli occhi della piccola Sara (anche lei poco più che bambina) a tradurre l'orrore in percezione, a trasformare una pagina di storia nera in un percorso di ricordo necessario e dunque parzialmente educativo.

Sulle tracce di Sara

Quando la mattina del 16 luglio la polizia francese irrompe in casa Starzynski con l'obiettivo di tradurre l'intera famiglia (ebrea) nel Velodromo d'Inverno, la piccola Sara chiude il fratello più piccolo nell'armadio nella speranza di salvarlo da quello che lei avverte come un imminente e catastrofico pericolo, custodendo da quel momento la chiave del mobile come fosse la sua stessa vita. Sara, suo padre e sua madre verranno poi deportati al velodromo, e successivamente separati e smistati nei campi (insieme a tante altre famiglie tutte accomunate da un lugubre destino). Ma Sara, mobilitata dal proposito di tornare a salvare il fratellino, riuscirà a fuggire assieme a un'amica, trovando sostengo e ospitalità in casa dei coniugi Dufaure (il capofamiglia è interpretato da un ruvido e tenero Niels Arestrup), che le daranno una nuova identità e una nuova vita.

Anni dopo, nella Parigi dei giorni nostri, la giornalista americana Julia Jarmond (Kristin Scott Thomas), che vive con marito e figlia nella capitale francese, viene incaricata di redigere un pezzo proprio sui terribili fatti del Velodromo d'Inverno. Ma quando la sua vita privata andrà inaspettatamente ad incrociare la storia di Sara, scatterà in Julia la necessità di ritrovare le fila di una verità necessaria a comprendere il turbamento di un presente incerto, inesorabilmente gravato dagli orrori del passato.


Ogni verità ha un prezzo da pagare

Il regista francese Gilles Paquet-Brenner (Payoff) riapre il Vaso di Pandora della Shoah, prendendo a prestito gli occhi di una bambina (adulta) e quelli di una donna (matura) per narrare la disperazione: di vedersi strappare dalla propria casa, di vedere la propria famiglia disintegrarsi sotto al giogo della follia umana, di continuare a vivere nell'incapacità di cancellare immagini che hanno, nel tempo, cristallizzato l'immortalità dell'orrore. Attraverso l'alternanza di passato e presente, vecchi orrori che si trascinano nelle moderne sofferenze, Brenner realizza un film sospeso tra due epoche, tra la disperazione materiale e reale generata dalla follia nazista e la disperazione di un'epoca più serena contaminata nondimeno da un profondo malessere. Tra i primi piani degli occhi traumatizzati della piccola Sara e la disperazione fredda con cui Julia affronterà il cammino verso la scoperta di una verità insostenibile c'è uno spesso fil rouge che corre lungo il senso di sopravvivenza: quella - materiale - di Sara, tragicamente e personalmente coinvolta in una durissima lotta per la vita, e quella di Julia, legata sempre più a doppio filo alla necessità di sapere e avvicinare una verità che sarà poi decisiva per fare le proprie scelte nel presente.

La chiave di Sara Un film dalle tematiche spinose ma dall’approccio sobrio, giocato non sulla disperazione ma sulla presa di coscienza, e sostenuto dalle valide interpretazioni della piccola Mélusine Mayance (genuina) e di Kristin Scott Thomas (viscerale nel suo essere compassata). Sicuramente più fluido nella parte storica, La chiave di Sara rappresenta - nonostante alcune scelte narrative non troppo solide - un onesto esempio di ‘tentata rappresentazione in virtù della memoria’, che si va per forza di cose a scontrare - nel suo tentare una narrazione fruibile a più livelli - con il discorso sull’irrappresentabilità della Shoah, ma che rimane funzionale nella misura in cui la storia privata si erge a protagonista, lasciando che ancora una volta un cappottino rosso spicchi tra il grigio della perdizione umana e il nero della morte.

6.5

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