Recensione La buona uscita

L'opera prima di Enrico Iannaccone La buona uscita è il ritratto empio e impietoso di una Napoli affollata di maschere inquiete e volgari. Un'idea 'sofisticata' di cinema che si traduce però in un prodotto sostanzialmente privo di qualità.

Recensione La buona uscita
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In una Napoli borghese, tracimante ‘ricchezza' e boriosità, Marco Macaluso s'intrattiene al gioco della vita tra una pietanza pregiata e lo sfruttamento ordinario del prossimo. Ricco erede assieme al fratello minore della fruttuosa azienda di famiglia che 'per gioco' farà fallire, Marco alimenta e onora il ‘prestigio' della stirpe dei Macaluso tenendo in vita quel circuito di denaro, potere, indifferenza, e supremazia della loro comunione, che gli garantisce di usare (le cose così come le persone) sempre a proprio vantaggio e piacere. Non ci sono donne (trattate al pari di bambole gonfiabili) o uomini (avvolti in morbidi golfini griffati o meno) capaci di tenere testa al potere di onnipotenza esercitato in maniera precisa e sistematica dal giovane signorotto napoletano. Con eccezione fatta, forse e solo in piccola parte, per Lucrezia Sembiante, donna agè e ridicolmente lussuriosa che come Marco disprezza i sentimenti e ama - da sempre - inseguire le proprie abilità di conquista. Incapace di affezionarsi agli altri e in generale al mondo che lo circonda, ma piuttosto consapevole di volerlo solo calpestare per sentirsi a ogni passo più grande e alto, Marco Macaluso soffre però anche di un limite, ovvero quello di non poter arrestare in alcun modo la propria voglia di superarsi, spingersi oltre il limite. Ed ecco allora che la sua idea ossessiva di conquista gli farà maturare il progetto di un'ultima grande ‘vittoria' sul mondo e ai danni del prossimo. Una definitiva rivalsa sull'etica e sulla la morale che gli varrà l'ultimo, deprecabile, e sbeffeggiante passo verso La buona uscita.

La mala riuscita

A volte ci sono film con buone idee e pochi mezzi, altre volte film con grandi mezzi e un immaginario limitato. Nella peggiore delle ipotesi, invece, la mancanza di cose ‘assennate' da dire si unisce all'uso fortuito quando non addirittura molesto del mezzo audiovisivo. Purtroppo nel caso de La buona uscita, e dispiace davvero dirlo, la categoria di appartenenza è senza dubbio la terza. Un boccone amaro quello che si è costretti a metabolizzare, infatti, vedendo l'opera prima di Enrico Iannaccone (premiato con il David di Donatello nel 2013 per il cortometraggio L'esecuzione). Quella che doveva essere una Napoli "che non avete ancora visto" risulta infatti essere invece il volto sgradevole e mutilato di una Napoli che non vorremmo mai vedere, esasperata in un'indifferenza umana che avrebbe fatto rabbrividire lo stesso Moravia. Iannaccone muove una storia sghemba di irrisione e tradimento attraverso un carrozzone di personaggi caricaturali, al limite della macchietta, capeggiati dal Marco Macaluso di Marco Cavalli, un ometto insipido e repellente che nutre frustrazioni e alimenta la propria nullità attraverso le proprie sporche conquiste. Sullo sfondo svetta la bellezza di Posillipo, del mare, di una Napoli sfuggente e incatalogabile, mentre in primo piano primeggia la bruttezza di una storia sfilacciata di ‘nuovi mostri', e che lascia spazio solo alla pochezza dei suoi protagonisti. Ma la mano, il tono, la recitazione, e in generale l'insieme del comparto artistico non sono 'abbastanza' per mutare questo pastiche umano nel volto deforme di una società resa al proprio cinismo (quello che forse il film voleva essere nelle intenzioni). Piuttosto, quello che ne emerge è un ritratto impietoso e insensato di un'umanità senza sfumature, incolore, tutta ugualmente atterrita dal proprio cinismo e rintanata dietro un uso sdoganato e disfunzionale del linguaggio (scurrile e volgare oltre ogni ragionevole funzionalità).

La buona uscita Enrico Iannaccone debutta alla regia di un lungometraggio con La buona uscita, pellicola che indaga il cinismo feroce e il vuoto etico e morale creato dai soldi e dal potere. Un’idea tutto sommato sofisticata che muove i passi verso un cinema d’autore contemporaneo. E infatti nella regia compiaciuta e autoreferenziale di Iannaccone s’intravedono i riflessi di alcune opere di Garrone e (soprattutto) Sorrentino. Ciò che però senz'altro manca a quest’opera prima sono lo stile e la sofisticatezza d’intenti per andare oltre il ritratto sterile dell’opulente decadenza di cui si fa portavoce, ed evitare di impantanarvisi.

4

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