La Battaglia dei Sessi: la recensione del film con Emma Stone e Steve Carell

Il match che nel 1973 ha fatto la storia del tennis (e non solo) diventa oggi un film grazie ai registi di Little Miss Sunshine e due interpreti brillanti.

La Battaglia dei Sessi: la recensione del film con Emma Stone e Steve Carell
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Serena Williams, tennista americana ex numero uno della classifica mondiale (momentaneamente fuori dal circuito causa maternità), al massimo della sua forma e nelle condizioni migliori potrebbe davvero competere ad armi pari con un uomo. Finora ha vinto 23 titoli del Grande Slam e il suo montepremi attuale ammonta a circa 80 milioni di dollari guadagnati fra trofei e sponsor, mentre Roger Federer, il campione svizzero, le corre dietro con numeri inferiori (19 gli slam, 67 i milioni in tasca); un confronto dentro e fuori il campo che oggi, al netto di una parità di diritti ancora non del tutto realizzata, avvicina due mondi e due modi di intendere lo sport in una sola immagine universale. Donne e uomini sono uguali in ogni aspetto, in ogni luogo essi agiscano, e le istituzioni sociali (sport compreso) hanno l'obbligo morale di rispettarlo. Purtroppo, ed è anche normale che sia così, la storia ci insegna che prima di qualsiasi grande conquista c'è la lotta, talvolta lunga ed estenuante, condotta da piccole militanze che diventano sempre più numerose, e quando si parla di tennis è impossibile non tornare con la mente al 1973, un anno decisivo: sulla scia dei movimenti femministi dell'epoca, Billie Jean King sfida l'ex campione Bobby Riggs in un match simbolico, battendo l'avversario in tre set. L'evento fu seguito da novanta milioni di spettatori ed ebbe una tale risonanza mediatica da provocare parecchi scossoni al sistema tradizionalista del Paese.

Billie Jean King contro Bobby Riggs

La celebre Battaglia dei Sessi dà il titolo al film diretto da Jonathan Dayton e Valerie Faris, coppia di registi che ha firmato Little Miss Sunshine e Ruby Sparks, e sceneggiato da Simon Beaufoy (Full Monty, The Millionaire, 127 Ore), un prodotto dalla confezione indipendente ma con esiti e intenzioni da cinema mainstream nel rispetto della classica narrazione hollywoodiana. Perché niente, oltre la cronaca degli eventi e l'approfondimento sentimentale sui due protagonisti, sembra suggerire una messa in discussione dei fatti: semplicemente ci si limita a mostrarli in sequenza, alternando registri comici e drammatici (ben orchestrati da Dayton e Faris) lasciando che il gioco e lo spettacolo melò prevalgano sul resto. E questo non sminuisce affatto il lavoro di chi davanti la macchina da presa dimostra ancora una volta sacrificio e dedizione, a partire da Emma Stone che mette su muscoli e un ottimo studio del personaggio - le movenze, il look, la voce sono gli stessi di Billie Jean King - e Steve Carell, goliardico maschilista per cui tifare, nonostante tutto.

Un film giocato con poco coraggio

Insomma, se cerchiamo la rivoluzione in una pellicola che finalmente riconcilia il cinema con il tennis, un rapporto assai complicato e nel tempo mai approfondito, non è questo il caso. Tuttavia l'impegno degli attori, la sceneggiatura lineare, la ricostruzione storica degli eventi e la pasta dell'immagine ne fanno un tentativo riuscito, nella misura in cui lo spettatore può sentirsi rassicurato dal calore e dalla tenerezza diffusi in ogni scena, dall'entusiasmo negli occhi di chi vi partecipa (Stone, Carell e Sarah Silverman valgono sempre il prezzo del biglietto), dal potere delle piccole storie che diventano epica contemporanea.

È evidente che dopo le recenti elezioni presidenziali americane e le polemiche avanzate da spiccate personalità di Hollywood, il dibattito sulla parità dei sessi è più che mai vivo, e il film di Dayton e Faris si inserisce perfettamente in questo filone tematico senza guizzi né personali interpretazioni del tema. Lo fa attraverso un invito a recuperare la memoria dello sport come vera letteratura delle imprese, qui le gesta di una donna che in gonnella, su un campo da tennis, sconfisse il rivale maschilista e un nemico interiore (la paura di accettare se stessa e la sua sessualità). Forse debilitato da un'eccessiva appendice melodrammatica, La battaglia dei sessi perde la partita con il coraggio. Volendo usufruire della terminologia sportiva, diremmo che ha preferito il gioco da fondo, difensivo e conservatore, invece di quello a rete, geniale e temerario. Ed è un peccato.

La Battaglia dei Sessi Confenzione indipendente per un film che invece tradisce le sue intenzioni classiche hollywoodiane: il racconto di un evento storico si trasforma nella riproduzione in chiave melò della celebre sfida tra Billie Jean King e Bobby Riggs, interpretati dagli ottimi Emma Stone e Steve Carell, che però mostra poco coraggio nel rielaborare il ricordo in qualcosa di non così tanto tradizionale. Godibile per la sceneggiatura, la regia e la messa in scena, un po' meno interessante quando esce dai binari che si è costruito, il film nasconde dietro lo spettacolo sportivo il melodramma senza riuscire a divincolarsi da quella strada.

6

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