Recensione L'uomo che vide l'infinito

Il regista americano Matthew Brown racconta, in L'uomo che vide l'infinito, la vita del matematico anglo-indiano Srinavasa Ramanujan, affidandosi principalmente alla collaborazione fra Dev Patel e Jeremy Irons.

Recensione L'uomo che vide l'infinito
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Nel panorama dei biopic dedicati a varie figure importanti in ambito scientifico, L'uomo che vide l'infinito è un oggetto alquanto anomalo. Laddove film come A Beautiful Mind (prodotto da Brian Grazer e Universal), The Imitation Game (sostenuto da un peso massimo come Harvey Weinstein) o La teoria del tutto (griffato Sony) vantavano diversi vantaggi in sede creativa e produttiva, l'opera seconda di Matthew Brown, presentata a Toronto e poi come film d'apertura del Festival di Zurigo, è un outsider che ha dovuto lottare per venire al mondo. Per ammissione dello stesso Brown, che non firmava un lungometraggio in quanto regista dal 2000, ci sono voluti una decina d'anni prima che qualcuno fosse disposto ad investire un minimo - e non intendiamo in senso figurato - nella storia di Srinavasa Ramanujan, figura fondamentale ma ancora semisconosciuta (al di fuori del proprio ambito specialistico) nel campo delle scienze, in particolare la matematica.

Ramanujan, chi era costui?

Srinavasa Ramanujan (1887-1920), originario della regione indiana di Madras, è famoso per aver formulato diverse teorie matematiche molto complesse, pur non avendo un livello di istruzione neanche lontanamente compatibile con i suoi ragionamenti. Fattosi notare da uno dei suoi datori di lavoro, venne messo in contatto con la Facoltà di Matematica dell'università di Cambridge e si ritrovò a collaborare con il professore G.H. Harding (interpretato sullo schermo da Jeremy Irons, mentre Ramanujan ha le fattezze di Dev Patel). Un'accoppiata curiosa e segnata da numerosi problemi: da un lato, i metodi discordanti dei due uomini (Ramanujan rifiutò a lungo di capire l'importanza della verifica delle ipotesi prima che queste fossero pubblicabili); dall'altro, l'atteggiamento snobistico e razzista dell'élite di Cambridge, ancora convinta che l'India non fosse degna di grandi attenzioni. Oggi la situazione è cambiata, al punto che, come ci viene detto nei titoli di coda, le formule di Ramanujan sono usate per studiare i buchi neri.
Matthew Brown costruisce la sua trasposizione cinematografica degli eventi alternando due binari relazionali: sul fronte inglese assistiamo al bromance - poco convenzionale, ma pur sempre bromance - tra Hardy (il quale ha anche un bel rapporto d'amicizia virile con il professor Littlewood, interpretato da Toby Jones) e Ramanujan, mentre in India viene dato spazio alle pene d'amore di Janaki (Devika Bhise), la moglie del giovane matematico, costretta a vivere nell'incertezza riguardo lo stato di salute del coniuge e il suo desiderio di vederla al suo fianco sul campus di Cambridge.

Imperfetta sincerità

Il regista procede linearmente nella narrazione, senza deviare troppo dalle convenzioni dei biopic e concedersi sguazzi di creatività a livello visivo (presumibilmente anche per questioni di budget). È comunque possibile, tuttavia, percepire la sua passione e la sua sincerità in questo oceano di imperfezione, dove l'estetica dal sapore molto classico è accompagnata da un pugno di ottime prove d'attore. Patel continua la sua evoluzione in positivo come interprete drammatico, mentre Irons e Jones aggiungono livelli di umanità a ruoli che in teoria potrebbero interpretare anche nel sonno. Dispiace un po' vedere Stephen Fry - il quale ad un certo punto stava scrivendo un altro copione sullo stesso tema - ridotto ad un semplice cameo in terra indiana (soprattutto considerando che, con il suo passato da vero studente a Cambridge, si sarebbe sentito perfettamente a suo agio nei panni di un professore), mentre la giovane Bhise, nata e cresciuta a New York, dà a Janaki un'anima umana e toccante senza mai scivolare in stereotipi a livello di recitazione. Un buon gruppo per raccontare, in modo semplice ma efficace, una storia che merita di essere (ri)scoperta.

L’uomo che vide l'infinito Un biopic piuttosto convenzionale, ma non per questo privo di merito. Il regista, alle prime armi (o quasi), supera le difficoltà produttive per consegnare un prodotto dignitoso, sincero e coinvolgente, rafforzato da un cast affiatato e talentuoso. Una buona introduzione ad un argomento che merita attenzione maggiore.

7

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