Recensione L'età d'oro

Partendo dalla vera storia di Annabella Miscuglio, Emanuela Piovano racconta ne L'età d'oro di una pasionaria del cinema in lotta per tenere in piedi l'arena cinematografica che ha restaurato in Puglia.

Recensione L'età d'oro
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Come fece nel 2010 per Le stelle inquiete, ispirato alla figura della filosofa Simone Weil, la torinese Emanuela Piovano - autrice, tra l'altro, de L'aria in testa e Amorfù - cerca ancora una volta di raccontare una persona che non c'è più.
Suo sesto lungometraggio, infatti, L'età d'oro parte dall'omonimo libro scritto da Francesca Romana Massaro e Silvana Silvestri per omaggiare la compianta Annabella Miscuglio che fu, tra l'altro, responsabile nel 1982 del programma televisivo commissionatole dalla RAI AAA. Offresi, tutt'ora sotto sequestro e che le costò la condanna per sfruttamento della prostituzione.
La Annabella Miscuglio che, trasformata nella finzione cinematografica in Arabella e incarnata da Laura Morante, dopo decenni d'incomprensioni e liti con il figlio Sid alias Dil Gabriele Dell'Aiera dovuti a un modo di vedere ed affrontare la vita che da bambino lui non poteva accettare, lo vede tornare alle sue radici spostandosi dalla Torino savoiarda alla allegra e naïf comunità pugliese in cui si trova la madre.

Miscuglio da schermo


Comunità pugliese destinata a rappresentare insieme ad una certa malinconica atmosfera il maggiore punto di forza della oltre ora e mezza di visione, impreziosita da un ricchissimo cast - spaziante dal televisivo Giulio Scarpati allo Stefano Fresi di Smetto quando voglio - e mirata a tracciare il viaggio che il ragazzo effettua all'interno dei ricordi della donna e degli amici che hanno colorato la sua infanzia; man mano che apprende sia come l'amore nei confronti di una mamma possa avere mille sfumature, sia che è stata cento personalità differenti, dalla regista alla femme fatale, passando per l'amica e la fondatrice dell'arena cinematografica e dei suoi festival, che tenta oltretutto per tenere ancora in piedi.
E, mentre ci si chiede se il cinema sia in grado di attenuare l'urto della vita, si respira, a tratti, l'aria di una certa cinematografia d'oltralpe fiorita in piena Nouvelle Vague, tanto che ne troviamo conferma perfino in questa lunga dichiarazione della stessa Piovano: "Se l'estetica di Simone Weil era fondata su Giotto, in questo film ho voluto confrontarmi con l'estetica della caméra stilo di Alexandre Astruc rivisitata dall'underground degli anni Settanta. Per questo la macchina da presa lavora su due registri: quello diegetico che racconta il qui ed ora, utilizza una camera rigorosamente fissa, inamovibile. I corpi e le luci e le cose passano con un loro interno movimento, forse rivelatore. La macchina da presa attende, non osa addentrarsi. Il secondo registro, extradiegetico, sotto forma di filmini super otto di trent'anni fa, su confronta con un linguaggio che all'epoca era stato anticipatore del contemporaneo linguaggio autoriale da Dogma ad arthouse. La macchina da presa qui è mobile, abbraccia i personaggi e danza con loro, il pedinamento zavattiano è il loro unico referente perché all'epoca non vi era altro, almeno per l'underground italiano".
Registri a cui possiamo aggiungere anche il montaggio frammentario - sebbene realistico all'interno delle singole sequenze - come terzo, quasi a cercare di ricomporre un puzzle al quale l'opera aperta degli artisti di quegli anni si era continuamente ispirata... ma al servizio di un'operazione difficilmente fornita di capacità di coinvolgimento e, soprattutto, molto poco chiara per quanto riguarda le sue intenzioni.

L'età d'oro Il cinema ci rende migliori? Prova a risponderci la torinese Emanuela Piovano tramite L’età d’oro, ispirato alla realmente esistita Annabella Miscuglio. Con un respiro generale non distante da quello di determinati lavori appartenenti alla Nouvelle Vague e una certa malinconica atmosfera conferita anche grazie all’ambientazione pugliese, però, l’insieme si rivela piuttosto confuso e difficilmente capace di coinvolgere lo spettatore.

5

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