Recensione L'arte di vincere

Brad Pitt nei panni di un 'emerito' perdente

Recensione L'arte di vincere
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Isipirato a una storia vera e scritto nel 2003 dall'ex bond trader della Salomon Brothers Michael Lewis, il libro Moneyball (L'arte di vincere) diventa film nella trasposizione di Bennet Miller (Capote), su script realizzato a quattro mani dai quotatissimi sceneggiatori Steven Zaillian (Schindler's List) e Aaron Sorkin (The Social Network). Protagonista assoluto del lungometraggio non è tanto il gioco del baseball in sé, come verrebbe facilmente da pensare, quanto piuttosto la rivoluzione delle strategie organizzative alla base del baseball quale punta di diamante della filosofia sportiva americana. Dunque non un canonico film sportivo costruito su dinamicità e competizioni all'ultimo respiro, ma una storia sulla sfida (sostanzialmente mentale) sferrata alle tradizioni e agli schemi sociali conservatori, che condizionano il modo di relazionarsi (perfino) a uno sport quasi come fossero leggi. Miller firma dunque una rivisitazione dell'american way of thinking in salsa sportiva che ha già riscosso una pioggia di apprezzamenti ma che, a chi scrive, appare un tantino sopravvalutato.

Billy Beane e gli Oakland Athletics

Billy Beane (Brad Pitt) è un ex giocatore di baseball che ha riposto nel cassetto, dopo numerosi insuccessi e delusioni, il sogno di diventare una star sportiva. Non ha però rinunciato al suo istinto agonistico e al senso di competizione che ha fatto confluire nel suo lavoro di General Manager (una figura che è una via di mezzo tra il Presidente e l'allenatore). Dopo aver giocato un'ottima stagione con gli Oakland Athletics però, Billy perde l'ultima partita e con quella anche la possibilità di tenere i giocatori più quotati, subito acquisiti dalle squadre più ricche sulla base di contratti da capogiro. Dunque, con un budget ridotto ai minimi termini il suo potere contrattuale crolla e la speranza di ripartire con una squadra ‘vincente' diventa sempre più flebile. Determinante sarà per lui l'incontro con Peter Brand (Jonah Hill - vera carta vincente del film), ragazzotto molto sveglio fresco di laurea in economia alla Yale e sostenitore della sabermetrica: una teoria statistica che ordina i giocatori non in virtù del loro ‘appeal sportivo' ma - matematicamente - in base alla loro capacità di portare a casa punti, e dunque vittorie. Beane rimarrà colpito dalla teoria eversiva di Peter (teoria che peraltro sostituisce all'idea del campione assoluto che trascina la squadra in vetta, il concetto ben più romantico e sportivo di una squadra fondata sulla coesione di tutti i giocatori e sulla fiducia riposta nelle loro potenzialità) e cercherà di metterla in pratica nella sua squadra, reclutando giocatori scartati dalle altre società che sembrerebbero invece avere un potenziale vincente. All'inizio i risultati non gli daranno ragione ma dopo un po' gli Oakland Athletics cominceranno a recuperare terreno, ottenendo poi una serie di 20 vittorie consecutive (un record a oggi imbattuto nel baseball) e dimostrando la validità delle idee di Beane, fino a quel momento osteggiate da tutti (incluso l'allenatore Howe - un poco sfruttato Philip Seymour Hoffman).

You’re such a loser dad, just enjoy the show

You're such a loser dad, just enjoy the show (sei un perdente papà, goditi solo lo spettacolo) è un verso che la figlia di Beane dedica a suo padre all'interno di un bel rapporto complice padre-figlia che connota 'romanticamente' il personaggio di Beane; un verso che chiude il cerchio di una storia costruita attorno alla figura di un uomo nell'aspetto vincente (Brad Pitt) logorato da una serie di sconfitte (il mancato successo come giocatore e il fallimento del matrimonio) e poi riscattato dalla voglia di credere in un ideale diverso da quello dominante, tornando a vincere ma conservando l'aura da perdente, ovvero da uomo integro, e per certi versi non corruttibile. Ed è proprio quel tenero verso che la figlia dedica al padre l'anima fondante de L'arte di vincere, in cui la lotta per una sospirata vittoria si rivelerà invece un percorso formativo utile a imparare come perdere con dignità, a mettersi in gioco sportivamente non abdicando mai a quei valori solidi e a quella competizione sana fondata su tenacia e creatività che sono alla base di ogni sport. Pitt veste i panni del non eroe sportivo, in un ruolo che gli si addice ma che non manca di sbavature, come l'ossessivo mangiare e sputare sintomo della sua rabbia compulsiva. Il film, dal canto suo, ha il pregio di sottrarsi ai cliché dei film sportivi classici per affrontare invece un discorso più ampio sulla difficoltà di uscire dagli stereotipi e da certi schemi facendo leva sulla fiducia in sé stessi. Allo stesso tempo però, tende in più di un frangente ad arrovellarsi su sé stesso e a perdersi in digressioni (il flashback di Beane ragazzo, il siparietto con la moglie) non troppo pertinenti che diluiscono i tempi e gravano su un ritmo di per sé già non troppo sostenuto. Peccato infine per l'utilizzo marginale e sottotono di Philip Seymour Hoffman che in coppia con lo stesso Miller - nel 2005 - ci aveva regalato lo straordinario Capote.

Moneyball Vincente l’idea di Miller di realizzare un film che sfrutta lo sport per affrontare un discorso pseudo-politico sulla struttura delle società capitalistiche coeve, in cui ogni settore (incluso, appunto, quello dello sport) deve sottostare a rigidi schemi economici. Ma a fronte di alcune scene ispirate (quella, ad esempio, dell’ultimo round di contrattazioni) e la presenza catalizzante di Jonah Hill che concedono al film un certo slancio, sono l’intermittenza del ritmo e l’estrema prolissità a rendere l’opera più altalenante, complice anche il fatto che per gran parte dei 133 minuti si parli astrattamente di numeri e statistiche. Manca insomma un piglio narrativo forte (qualcuno ricorderà a questo proposito Il maledetto United) che permetta a qualsiasi spettatore (più o meno addentro all'argomento) di appassionarsi visceralmente alla storia.

6.5

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