Judas and the Black Messiah, la recensione del film con Daniel Kaluuya

Arriva in Italia il film candidato a 6 Premi Oscar scritto e diretto da Shaka King, dedicato alla vicenda di Fred Hempton.

Judas and the Black Messiah, la recensione del film con Daniel Kaluuya
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Dopo aver vinto diversi premi tra indipendenti e sindacati e aver ricevuto 6 nomination agli Oscar 2021, compresa quella al Miglior Film, l'impegnato Judas and the Black Messiah scritto e diretto da Shaka King arriva finalmente in Italia in video on demand. Insieme a Il processo ai Chicago 7 di Aaron Sorkin e One Night in Miami di Regina King, il lungometraggio di King (classe 1980) è sicuramente tra i titoli di alto rilievo con tematiche sociali, politiche e ideologiche tra le più forti e dirompenti, sempreverdi e dunque attuali. Rispetto ai colleghi è più schietto e schierato e non cerca contraltari di sorta, raccontando in modo principalmente drammatico sferzato da qualche ventata thriller la storia vera di Fred Hempton (Daniel Kaluuya), leader delle Pantere Nere o Black Panther Party, organizzazione rivoluzionaria afroamericana attiva soprattutto negli anni '70.

Lo fa muovendosi all'interno dell'organizzazione attraverso gli occhi dell'infiltrato William O'Neal (Lakeith Stanfield), piccolo criminale di strada che sceglie di collaborare con l'FBI per far cadere le Pantere Nere. L'intera vicenda segue dunque da vicino la scalata di O'Neal nel Black Panther Party al fianco di Hempton e tutta la mobilitazione attiva del partito rivoluzionario nel creare un'alleanza con i diversi gruppi dell'Illinois, questo grazie al carisma e alle capacità oratorie del loro leader, designato da J. Edgar Hoover come "il nuovo messia nero" dopo Malcom X e Martin Luther King, una figura assolutamente da eliminare.

Cristologia afroamericana

La cinematografica di produzione afroamericana dell'ultimo periodo sembra guardare molto alla cristologia cattolica. Si può già iniziare il confronto con la Trinità del 2020-2021 in questo specifico campo, composta da One Night in Miami, Da 5 Bloods e proprio Judas and the Black Messiah. Se il primo affronta in forma teatrale e interamente dialogica l'incontro di alcune figure di spicco dei diritti civili delle comunità di colore americane e il secondo guarda indietro allo sfruttamento militare degli afroamericani durante la Guerra del Vietnam, mandati a morire all'estero e uccisi nella propria patria, il film di King è quasi una crasi involontaria tra i due progetti, motivo per cui crediamo sia stato preferito nella corsa agli Oscar rispetto agli altri due (e straordinari) lungometraggi.
Il fatto è che già dal titolo, Judas and the Black Messiah pone l'accento sulla tematica del proselitismo rivoluzionario messo a punto da Hempton e sulla presenza di un traditore tra le schiere degli adepti delle Pantere Nere, letteralmente un Giuda - appunto - perché vendutosi (nonostante diversi scrupoli e costrizioni) per soldi. King racconta la storia del partito seguendo da vicino i protagonisti del racconto, amplificando in questo modo l'empatia con Hempton e O'Neal, radicalmente opposta, differente. Quando il regista dirige ed entra nei discorsi di Hempton, il film esplode e trova il suo vero nucleo, arrivando come un'onda implacabile a colpire lo spettatore per la profondità e il senso delle parole del leader delle Pantere Nere, per il suo amore verso il popolo.

Molto si deve all'interpretazione eccezionale di Kaluuya, forse la sua più carismatica e centrata, vero fuoco divampante sul palco e davanti ai suoi "fratelli", davvero impressionante nel monologo a circa 1 ora e 20 di film. Il suo "I am a revolutionary" è già uno dei gridi cult dell'anno, ma è anche quando si addentra nella ricerca di collaborazione con gli altri gruppi come i Chicago Crows che emerge l'ottima scrittura del personaggio, il non voler tradire l'eredità di un giovane messia socio-politico morto a soli 21 anni, ucciso mentre dormiva.

Dall'altra parte c'è O'Neal, nei cui panni troviamo invece il lanciatissimo Lakeith Stanfield. Il peso dei due protagonisti è praticamente bilanciato, tant'è che l'Academy ha deciso di nominarli insieme nella categoria Miglior Attore non Protagonista. Quello impalcato dal regista e sceneggiatore è dunque un gioco di estremi della stessa medaglia tra l'ideologia pura di un credente rivoluzionario e quella invece sozza di un attivista troppo debole e spaventato per fare la cosa giusta, mortalmente corrotto anche se fedele alla causa, un paradosso ambulante fiacco e tremolante, mosso dal soffio vibrante del FBI e delle sue minacce.

Anche Stanfield regala un'interpretazione intensa e ragionata, peraltro espressivamente identica alla controparte originale.
Al netto del forte impegno del racconto, dei monologhi di Hempton e delle interpretazioni delle due star principali, comunque, Judas and the Black Messiah procede ancorato alla sua validità socio-culturale senza virtuosismi di sorta o un montaggio ricercato, dimostrandosi un titolo molto classico senza troppe sfumature cinematografiche.

È potente nel messaggio ma strutturato per non sorprendere e accattivare come ad esempio i già citati Da 5 Bloods o One Night in Miami. Fondamentalmente, non vuole essere né mainstream, né autoriale, né pop, ma un titolo capace di colpire dove necessario, quando necessario, incentrato sulla lotta e la mobilitazione, sul valore e la pericolosità della parola. Anche in questo senso, il titolo è pura cristologia afroamericana: un trattato filmico di religiosa chiarezza volto a divulgare e tramandare il verbo dell'ennesimo messia nero ucciso "per i suoi peccati" dall'autorità bianca. E lo stesso Hempton appariva quasi come un Dio da vecchio e nuovo testamento insieme, quando predicava la rivoluzione: "Non è questione di violenza o non violenza. La questione è resistere al fascismo o non esistere all'interno dello stesso".

Judas and the black messiah Judas and the Black Messiah di Shaka King è un titolo d'impegno civile dedicato alla vera storia del "messia nero" Fred Hempton e del suo traditore, William O'Neal. Si muove con fare cristologico afroamericano tra proselitismo, mobilitazione e unificazione del popolo, espandendo i confini del racconto dialogico e monologato anche oltre la barricata dell'attivismo socio-politico, dalla parte avversaria e spaventata dell'autorità bianca. Daniel Kaluuya e Lakeith Stanfield regalano due interpretazioni ugualmente intense ma diverse, il primo carismatico, verace, energico e dirompente, il secondo più titubante, con una ricercata debolezza interiore, una bandiera mossa dal vento più favorevole. Un titolo estremamente classico che gioca senza virtuosismi ma vuole arrivare dritto e preciso al pubblico per ciò che ha da raccontare e divulgare, cioè l'eredità della parola di un oratore rivoluzionario che scelse di resistere.

7.5

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