Recensione Io, Arlecchino

Matteo Bini e l'attore Giorgio Pasotti debuttano nella regia del lungometraggio tramite una commedia dal retrogusto drammatico mirata a sfruttare una delle più famose maschere della Commedia dell'Arte quale metafora dell'uomo moderno.

Recensione Io, Arlecchino
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Se consideriamo che, nel corso dei titoli di coda, è possibile leggere che alla drammaturgia del film ha collaborato anche il Davide Ferrario per cui, nel 2004, Giorgio Pasotti lavorò in Dopo mezzanotte, possiamo quasi affermare che siano tre gli autori del lungometraggio che segna il debutto alla regia per Matteo Bini e l'interprete de L'ultimo bacio e Sapore di te.
Lungometraggio in cui quest'ultimo concede anima e corpo a Paolo, noto conduttore di un talk show televisivo pomeridiano che prima torna nel piccolo villaggio medievale di Cornello del Tasso a causa della grave malattia che ha colpito il padre Giovanni alias Roberto"Buongiorno, notte"Herlitzka, ex attore teatrale e famoso Arlecchino intenzionato a voler spendere gli ultimi mesi della sua vita recitando con la piccola compagnia per mettere in scena spettacoli di Commedia dell'Arte, poi si trova a vestire i panni della popolare maschera bergamasca.
Man mano che il buon cast, tra gli altri, include Valeria"Happy family"Bilello, la Lavinia Longhi di Immaturi - Il viaggio, Massimo Molea, Gianni Ferreri e Lunetta Savino, rispettivamente attivi nelle fiction tv I Cesaroni, Distretto di polizia e Un medico in famiglia; in quanto i due citati cineasti precisano: "Io, Arlecchino è un film con due protagonisti, che trova anche una dimensione di coralità attraverso i suoi vari personaggi secondari, i quali non solo fanno da contorno alle vicende principali ma rappresentano i custodi di un piccolo mondo incontaminato dai veleni della modernità. Gli stessi luoghi, infatti, divengono elementi di narrazione e di significato e contribuiscono a definire i personaggi e le loro relazioni".

La maschera della crisi

Non a caso, mentre Paolo provvede a ricucire un rapporto con le proprie origini, ridefinendo la sua identità e riscoprendo il tesoro artistico che è lo stesso Arlecchino, è impossibile non avvertire la descrizione della netta divisione tra la cinica e falsa realtà metropolitana del lavoro industriale nell'ambito di un certo piccolo schermo e quella maggiormente genuina e calorosa che caratterizza l'artigianalità del teatro e della vita di provincia; tanto più che la fotografia di Charlie Goodger fornisce un fondamentale contributo privilegiando i toni freddi nelle sequenze riguardanti la prima e quelli caldi nei momenti inerenti alla seconda.
Quindi, sebbene ci troviamo semplicemente dinanzi ad una commedia dal retrogusto drammatico, non si può fare a meno di apprezzarne i forti sottotesti socio-politici, esposti anche in questa dichiarazione dei produttori Nicola Salvi ed Elisabetta Sola: "Parlare di Arlecchino nei tempi moderni significa raccontare una favola attuale in cui tradizione, storia e presente si mescolano per ricordare che, forse, anche nei tempi di crisi, la propria identità storica e culturale, il ritorno alle proprie origini e la capacità di scommettere e rischiare sono gli antidoti per non soccombere e per avere fiducia nel futuro".
Ed il fatto che l'anarchica figura del "rattoppato" teatralmente affermatosi a metà del Cinquecento venga in questo caso sfruttata in maniera tutt'altro che banale per suggerire - soprattutto al pubblico dei giovanissimi - che bisogna sempre rimanere in grado di essere padroni della propria libertà finisce per incarnare non solo il maggiore pregio dell'operazione, più volte a rischio di resa televisiva, ma anche l'elemento capace di valorizzarne alla grande la esile sceneggiatura.

Io, Arlecchino I luccicanti riflettori del mondo della televisione, impegnati a tenere illuminato tutto senza pudore, la Commedia dell’Arte, propensa a raccontare attraverso le maschere - e con immediatezza - vizi e virtù dell’uomo, la semplicità di un paesino in provincia di Bergamo al riparo dai tormenti della città. Sono i tre mondi che Giorgio Pasotti e Matteo Bini contrappongono nel loro lungometraggio d’esordio Io, Arlecchino, non privo di difetti e che individua le sue parti più riuscite nell’inizio e nella conclusione, ma caratterizzato da una buona regia che, oltretutto supportata da un cast impeccabile, si pone al servizio di un insieme originale soprattutto per quanto riguarda la propria intenzione, così sintetizzata dai due autori: “In questo momento storico il film racconta la storia di un recupero della tradizione con un occhio rivolto al futuro: come diceva il compositore Gistav Mahler, ‘tradizione non è contemplare le ceneri ma passare il fuoco’”. Consigliato in particolar modo alle scolaresche ed ai giovanissimi spettatori.

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