Recensione In un mondo migliore

Come rendere il mondo un posto migliore secondo Susanne Bier.

Recensione In un mondo migliore
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Lei è una delle registe più apprezzate del panorama danese, soprattutto perché la più vendibile a livello internazionale, e il suo nuovo film è stato già scelto come candidato ufficiale del suo Paese per gli Oscar 2011. In un mondo migliore di Susanne Bier, già prima della visione, si porta dietro un bagaglio di aspettative per nulla semplice da gestire.

Combattere la violenza

Anton (Mikael Persbrandt) è un medico idealista che lavora per una missione umanitaria in un campo di rifugiati in Africa. Cerca di fare sempre la cosa giusta e di non lasciare che l'emotività intacchi il suo lavoro e la sua vita, anche quando torna a casa dalla moglie con cui è in crisi e da figlio adolescente Elias (Markus Rygaard), vittima continua dei bulli della scuola. L'unico che sembra capace di difendere il ragazzo da questa violenza gratuita è il nuovo arrivato Christian (William Johnk Nielsen)...

Modello per un mondo migliore

"In un mondo migliore esplora la nascita delle reazioni violente nei figli adolescenti e le difficoltà degli adulti che, con l'esempio personale, tentano di indicare la strada del comportamento civile, arrivando a porgere l'altra guancia. Il film si chiede se la nostra cultura avanzata sia il modello per un mondo migliore o se piuttosto il caos sia in agguato sotto la superficie della civilizzazione". Così Susanne Bier, considerata la maggiore esponente del cinema scandinavo, presenta il suo film che, ancora una volta, si pone come obiettivo primario quello di sviscerare la natura umana. Filo conduttore di tutta la vicenda è Anton: uomo, medico, padre... da qualsiasi punto di vista lo si guardi il personaggio rimane un punto fermo nella propria convinzione che la violenza non sia il modo migliore di reazione, che anzi non faccia altro che peggiorare la situazione. La sua morale si scontra però con gli eventi, che sembrano richiedere costantemente una opposizione decisa e forte e mai controllata. Situazione che si accentua quando nella vita di suo figlio Elias arriva Christian che, segnato da una situazione famigliare difficile, richiede alla sua vita una costante dose di adrenalina e rispetto. Per tutta la storia questi due modi di comportamento si scontrano continuamente, cercando di influenzarsi, senza buoni risultati, a vicenda. Se Anton cerca costantemente di imporre ai suoi figli un modello comportamentale pacifista e ponderato, il ragazzo risulta più convincente perché ha dalla sua parte i risultati concreti, le reazioni desiderate, dell'umanità che li attornia.

Il potere dell'immagine

Susanne Bier ancora una volta si attesta come una regista che punta tutto sulle immagini e sul loro potere narrativo, ignorando volontariamente i buchi narrativi o le pieghe di sceneggiatura che questo costante lavoro sull'immagine inevitabilmente crea. In un mondo migliore punta tutto sull'impatto violento che la vicenda può avere sullo spettatore e lo spinge a riflettere su come i comportamenti di ognuno di noi possano avere ripercussione sul mondo che ci circonda. Attraverso la pacifica determinazione Anton, contrapposta alla esplosiva rabbia di Christian, cerca di inculcare nel pubblico un insegnamento sul modo corretto di agire per costruire, appunto, un mondo migliore. Nonostante alcune imperfezioni sparse per tutto il tempo narrativo e concentrate soprattutto ai due estremi della pellicola (per esempio nel finale dove, contrariamente a quanto accade per la maggior parte della narrazione, avviene esattamente quello che ci si aspetta già da metà storia), il film funziona benissimo, grazie anche a una colonna sonora che esagera l'impatto emotivo e a una recitazione appassionante e trascinante. Spettacolari in questo senso sono le interpretazioni di Mikael Persbrandt e del piccolo William Johnk Nielsen, che da soli reggono il totale peso morale del progetto.

In un mondo migliore Non stupisce che In un mondo migliore abbia vinto il Marc'Aurelio del pubblico al miglior film in questa edizione del Festival Internazionale del Film di Roma, dato il suo modo profondo e riflessivo di raccontare una storia di bullismo, potenzialmente già vista e già sentita molte volte. Gli errori narrativi si perdono a favore del forte impatto che la pellicola riesce ad avere sul suo pubblico, affascinato da una recitazione coinvolgente e attonita e concentrato sulle riflessioni simultanee che la storia suscita. Davvero un buon lavoro per la regista scandinava che per una volta sembra addirittura strizzare l'occhio all'ottimismo, abbandonando la crudeltà del suo tipico cinismo prima del finale.

6.5

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