Recensione Il tempo che ci rimane

Vite e guerra s'incrociano nella Palestina di Elia Suleiman

Recensione Il tempo che ci rimane
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Ci sono voluti otto anni perché il regista Elia Suleiman, che nel 2002 conquistò la critica con Intervento Divino (valsogli il Premio della giuria a Cannes) e che rifiuta di essere etichettato come un Arabo Israeliano, elaborasse nuove riflessioni personali in grado di dare vita a un film intimo e universale come Il tempo che ci rimane (The time that remains). Dopo quasi un decennio di maturazione  umana e artistica, dunque, Suleiman torna a parlare della sua Palestina, terra martoriata dai conflitti internazionali e dalle guerre intestine, cominciati nel 1948 con la proclamazione dello Stato di Israele e da allora mai conclusisi. Al suo terzo lungometraggio, lo stile parodistico e stralunato precipuo del regista è invariato, ed è lo stile d'istrionismo comico che Suleiman ha mutuato da maestri del farsesco come Jacques Tati o Buster Keaton, cui si aggiunge una connotazione filmica molto intima, dal sapore familiare, frutto di un'intensa esperienza autobiografica. Le vicende del Paese in perenne ‘guerra' si fondono infatti con quelle umane del tempo che scorre e delle generazioni che passano, creando un ritratto tragico e nel contempo comico della Storia in divenire, che tra orrori universali e dolori privati sembra non fare altro che ripetersi.

Il potere sovversivo del silenzio

Nel 1948 la diaspora palestinese segna l'inizio di un'odissea sociale che continua tutt'oggi a gravare sui popoli originari di quelle terre, da sempre oggetto di persecuzioni. D'impronta semi-autobiografica, il film narra quell'odissea intrecciando in un lungo flash back i salienti momenti storici alle sorti di una famiglia comune, per l'appunto quella del regista Suleiman, costretta come tante altre a combattere e soffrire pur di non lasciare la propria patria. La ricostruzione autobiografica, che conferisce al film un punto di vista molto personale, con digressioni narrative tanto astratte quanto allusive, è stata possibile grazie alle annotazioni contenute nel diario di Fuad Suleiman (il padre del regista) e alla corrispondenza epistolare della madre coi familiari costretti all'esilio, con cui si teneva in contatto. Ulteriore carattere autobiografico, è dato dalla bivalente presenza del regista: da un lato astratto narratore onnisciente e dall'altro attore dalla mimica immobile che veste nel film i panni di se stesso ai giorni nostri. La sua espressività, per certi versi buffa e aliena, si sposa benissimo col carattere trasognato e surreale del film, che si nutre di piccoli ma intensi siparietti comici, interpretabili come brandelli di ordinaria follia o scampoli di straordinaria lucidità: il vicino che vuole darsi fuoco col kerosene, ma che persevera nella formulazione di strambe strategie politiche, il militare disorientato che non sa chi o cosa debba salvare, i militari che tentano di far rispettare il coprifuoco, ma che finiscono per seguire con le loro teste il ritmo ondeggiante dei ragazzi in discoteca, e infine lo stesso Suleiman che vagheggia di scavalcare il Muro eretto dagli israeliani cimentandosi nel salto con l'asta. "Trovo che il silenzio sia molto cinematografico. Il silenzio è una cosa meravigliosamente sovversiva" sostiene il regista, alludendo a come il silenzio possa essere un'incredibile arma di resistenza. In modo analogo anche i silenzi filmici (una prerogativa assoluta del suo modo di fare cinema) sanno essere più significativi di mille parole; un silenzio può infatti riempirsi di senso grazie alla forza evocativa della memoria che vive in ognuno di noi. E anche se si tratta di mondi distanti o passati differenti, i ricordi familiari sono ciò che accomuna regista e spettatore, paesi e religioni diversi. A un mondo scandito dal rumore, fatto di bombardamenti, spari, carri armati, Suleiman contrappone il suono intimo di cose perdute, come piccole madeleine proustiane, ricordi che riaffiorano alla mente grazie a vivide memorie del passato: il frinire delle cicale e l'ondeggiare degli ulivi, il suono graffiato di un grammofono o il calore umano attorno a una tavola, e infine i gesti quotidiani di un padre e di una madre, alla memoria dei quali questo film è dedicato. 


Astrazione e libertà

Il pregio del lavoro di Suleiman è senza dubbio quello di lasciare che lo spettatore, attraverso il nonsense, l'ironia e i pregnanti silenzi che permeano il film, partecipi alla storia di amore e dolore che trapela dal film. Amore inesauribile per i propri cari e per la terra cui il regista appartiene, e dolore per la perdita, che è in parte connaturata alla vita stessa e in parte alla peculiare storia del popolo palestinese, segnata dalla diaspora e dai conflitti armati. E mentre la violenza è solamente accennata, come un'ombra inquietante che avvolge le vite dei protagonisti, ciò che dà spessore al film sono le transizioni generazionali, raccontate tramite dei sottili raccordi temporali, e il loro rapporto con la storia che le attraversa. Dal nonno di Suleiman, al Suleiman bambino, lo sguardo è partecipe e a un tempo astratto, intriso di dettagli di vita quotidiana e allusioni a ciò che di terribile va in scena fuori, ma mantiene sempre un certo distacco sperimentando l'alterità, un processo che secondo Suleiman promuove il senso di libertà che appartiene a ogni uomo. E se l'astrazione del narrare fornisce al regista un escamotage per conferire al suo film un carattere universale, non necessariamente legato alle vicende politico-sociali del suo Paese, che per la sua versatilità può raggiungere la sfera emozionale di ciascuno di noi, il materiale narrato richiede una certa disponibilità partecipativa allo spettatore, che deve attingere al suo bagaglio culturale (intenso in senso stretto e lato) per dare significato al film e scioglierne i nodi narrativi. Un film non facilmente godibile, che richiede un notevole processo di interiorizzazione ai fini della fruibilità filmica. Se l'intento di Suleiman era quello di darci un'originale chiave di lettura di vicende che tramite i media e la distanza fisica ci arrivano schematizzate, private della loro naturale connotazione umana, l'obiettivo può dirsi riuscito, con il piccolo neo di una narrazione che tende a essere (a tratti) un tantino monocorde, contribuendo a rendere ancora più difficile il processo di interiorizzazione di cui si parlava poc'anzi.

Il tempo che ci rimane Attingendo ai diari del padre a al carteggio tra la madre e i parenti esiliati, Suleiman racconta in maniera semi-autobiografica la storia della Palestina dal 1948 a oggi. Tramite una partecipazione emotiva e un’astrazione formale, dai toni comici e surreali, il regista ripercorre alcuni momenti salienti della storia palestinese attraverso le vicende della sua famiglia. Se il carattere astratto permette al regista di affrontare temi e momenti scottanti di una lunga storia di persecuzioni, l’eccessivo onirismo e lo stile un po’ monotono fanno del film un prodotto controverso, molto interessante ma di non facile fruibilità.

7

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