Recensione Il profeta

Formazione criminale e malesseri sociali convivono nel vivido affresco del francese Jacques Audiard

Recensione Il profeta
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Il profeta, candidato a 13 César e all'Oscar come miglior film straniero, non è, come verrebbe istintivamente da pensare, un'opera cinematografica sui rituali della vita ascetica. Tutt'altro. E parte dell'enigma del film è racchiuso proprio in quel titolo fuorviante, il quale senso verrà svelato solo in prossimità dell'epilogo, quando il mondo onirico e quello reale del protagonista per un attimo combaceranno. Cominciamo subito col dire che si tratta di un articolato film sociologico che indaga sulla desolante condizione umana nelle antidemocratiche carceri francesi (e non solo). Il regista è il talentuoso Jacques Audiard, figlio del celebre sceneggiatore Michel e autore di due film molto apprezzati (Tutti i battiti del mio cuore e Sulle mie labbra) che analizzano entrambi, con contestualizzazioni diverse, il variegato e complesso mondo della comunicazione tra esseri umani. Il tema, molto caro al regista, è ripreso anche qui grazie a una nuova chiave interpretativa e a un tema sociale assai spinoso ossia il linguaggio duro e condizionante delle carceri, dove la violenza non è solo la prima regola di sopravvivenza ma anche la sola possibilità di salvezza.

Cronaca di un’educazione criminale

Malik El Djebena (Tahar Rahim), diciannovenne franco-arabo di origine magrebina, è il frutto acerbo di un passato estremamente oscuro, che non ci verrà mai chiarito fino in fondo ma del quale il ragazzo porta visibili cicatrici, dentro e fuori di sé. Quando entra in prigione, condannato a sei anni per un qualche reato con annessa aggressione a pubblico ufficiale, è analfabeta, spaesato e pericolosamente solo. Tra le mura del carcere a farla da padroni ci sono i corsi, guidati da un leader autoritario e violento di nome Cesar Luciani (un incisivo quanto spietato Niels Arestrup), che vivono con insofferenza la presenza della crescente comunità araba, perlopiù dedita a piccoli spacci e a lunghe sessioni di preghiera. Preso subito di mira dall'anziano leader, che gestisce con la stessa sconcertante facilità carcerieri e carcerati, Malik verrà scelto, per via del suo atteggiamento schivo e della condizione d'isolamento, per un primo, determinante incarico che lo inizierà al sangue e alla legge del più forte che governa quel mondo assai a-democratico. L'uccisione di un ‘fratello' arabo, agghiacciante e topico gesto che il protagonista rivivrà anche successivamente in onirici frangenti di dialogo con la vittima, segnerà nel ragazzo un mutamento interiore, presa di coscienza del mondo senza regole in cui deve sopravvivere, e uno esteriore, il miglioramento delle condizioni carcerarie grazie all'inizio di un nuovo cammino sotto l'ala protettrice del suo capo-aguzzino Luciani. Ma non è tutto. Nel giro di tre anni il giovane Malik avrà imparato a sfruttare la sua intelligenza e la posizione garantitagli dal suo ‘padre padrone', per gestire proficui traffici e delicate relazioni all'interno del penitenziario, imparando a destreggiarsi in ben tre lingue, arabo, francese e perfino il corso assimilato poco alla volta grazie al ruolo di ‘servo' arabo; conoscenze che amplificheranno la sua vocazione leaderistica. Comincerà per lui una vera e propria fase di ascesa al potere, limbo propedeutico a quella libertà che si manifesta tramite gli abbacinanti spiragli di luce che filtrano nel buio delle celle, che condurrà il microcosmo carcerario a una vera e propria lotta di classe. Corsi contro arabi. E Malik, profeticamente scelto a fare da intermediario - un po' ambasciatore e un po' profeta - tra i due mondi, sfrutterà il suo vantaggio comunicativo per ottenere privilegi da uno e dall'altro fronte, in principio irresoluto poi sempre più determinato, fino a divenire leader incontrastato del sistema, rispettato e protetto al pari di un moderno Padrino. Quel ragazzo analfabeta, smarrito e solo di sei anni prima lascerà dunque il passo a un boss carismatico, poliglotta e tanto potente da ritrovare il sapore della libertà scortato da un solenne seguito.

L’inferno sono gli altri

Riprendendo le parole del regista, "Il Profeta racconta come qualcuno riesca a raggiungere una posizione di potere che non avrebbe mai raggiunto se non fosse andato in prigione. E qui sta il paradosso". Ed è proprio il paradosso il cuore pulsante del film. Un personaggio nato perdente, ma dotato di acume, può in una situazione ostile trasformarsi nel suo intrepido alter ego, ribaltando le condizioni iniziali e riuscendo infine a surclassare quelli che hanno sfruttato ma anche portato alla luce le sue abilità. "L'inferno sono gli altri" sosteneva Jean Paul Sartre; "Il mondo è iniquità: se lo accetti sei complice, se lo cambi sei carnefice". Malik quell'inferno, costretto ad accettarlo, lo cambierà, divenendo egli stesso carnefice ma ribaltando altresì le sorti del suo destino, partito col piede sbagliato e impossibilitato a correggersi lungo la via. Il riscatto della vittima che diventa antieroe/villain è dunque necessario per esaltare il futuro senza luce del protagonista al pari del suo singolare talento, in parte spiegato col parallelo del piano narrativo di immaginazione profetica (forse il nodo più debole della sceneggiatura), quale arma di sopravvivenza e occasione di riscatto sociale. E non importa se il processo di affrancamento è subordinato all'osservanza di una vita poco ortodossa fondata su precetti di dubbia moralità perché, a conti fatti, la scelta ultima è quella insindacabile tra la vita e la morte e non può che suscitare un'empatica indulgenza. Indulgenza che lo stesso regista concede al suo controverso eroe conferendogli un aspetto puro e un'aura mistica grazie ai quali il suo faccendiere di strada, senza mezzi o santi in paradiso, riesce ad accostarsi al Profeta ascetico di grande levatura spirituale. Come lui egli È l'ingabbiato che prende il volo.

Un lucido affresco socio-esistenziale

Il film, apparentemente molto action, si nutre in realtà di una trama prettamente mentale, introspettiva, seguendo la trasformazione in parte fisica e soprattutto interiore di Malik. La camera è sempre su di lui, in maniera quasi claustrofobica, con campi lunghi o inquadrature strette, a seguirne drammi psicologici, mutamenti interiori e ascesa. Il tutto permeato dal senso di inquietudine della cupa fotografia che ritrae il buio opprimente della vita carceraria e che si rischiara solo quando Malik (ri)trova il contatto col mondo esterno, tra le nubi del cielo, le onde del mare, o accarezzato da un soffice vento; tutti momenti di intensità sia filmica che umana. Dal canto suo Tahar Rahim, esordiente semisconosciuto, sul quale poggia l'intero impianto narrativo, propone una prova di grande metamorfosi espressiva portando con estrema naturalezza il suo Malik a spogliarsi dei panni dello sprovveduto ragazzo di strada per indossare quelli del maturo e spietato leader criminale. Tutto questo ricco materiale confluisce nel film per farne un pastiche di generi rigoroso nella regia, asciutta ed accurata, minimale nella colonna sonora, che interviene energica a segnare i momenti di svolta, e molto ben recitato. Film in grado di avvolgere lo spettatore, nei 150 minuti di pellicola, tra le trame della babele sociale ed esistenziale di Malik, nato perdente e poi ertosi a vincente, senza mai perdere di efficacia o coerenza narrativa, e che consacra Audiard nel novero dei registi contemporanei - francesi e non solo - più talentati.

Il profeta Immerso in un’ibrida atmosfera narrativa, a un tempo profana e spirituale, il film del francese Audiard ci accompagna per mano, con un’incisiva regia priva di orpelli e manierismi, lungo il paradossale percorso del suo antieroe Malik, costretto a dominare il male per non soccombere a esso. Film socialmente spinoso e formalmente complesso che induce lo spettatore a riflettere sulle iniquità societarie che si acuiscono man mano che ci smuove lungo i paludosi margini della società, di cui il carcere è un esempio tanto eclatante quanto simbolico. Un’opera che vive delle contraddizioni morali, religiose e razziali della collettività, trovando poi il suo paradigma risolutivo in una dimensione quasi spirituale.

8

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