Recensione Il padre dei miei figli

Un film francese per una storia straordinariamente universale

Recensione Il padre dei miei figli
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È risaputo che il cinema francese coevo è spesso accolto dal grande pubblico con un po' di scetticismo, per quei modi patinati e un po' leziosi che lo rendono talvolta un prodotto privo di carattere universale. Avranno da ricredersi quanti vedranno Il padre dei miei figli, opera seconda della francese Mia Hansen-Love e vincitore del Premio Speciale della Giuria nella sezione "Un certain Regard" del Festival di Cannes dell'anno scorso. La giovane regista francese a soli 29 anni confeziona infatti un melò drammatico asciutto e intenso che ha proprio il pregio di distaccarsi da certi francesismi per centrare invece il cuore di una storia che ha forte respiro universale, e che ruota attorno alla forza ammaliante di certe famiglie speciali e al potere catartico del cinema. Motivo per cui la stessa Teodora film ha deciso di distribuire in Italia quest'opera, mirabile ma pur sempre di nicchia, ricalcando le orme del produttore cinematografico Balsan, cui l'opera stessa s'ispira.

Quando cinema fa rima con vita

Grégoire Canvel (un superbo Luis-Do de Lencquensaing) è un uomo apparentemente realizzato: ha una moglie che lo ama (la nostrana Chiara Caselli), tre figlie meravigliose e un lavoro molto stimolante che lo fa sentire vivo. La sua società, la Moon Films, è infatti una piccola casa di produzione indipendente che promuove il cinema d'autore non commerciale, caricandosi sulle spalle il peso di opere che non sempre riescono a coprire le spese di realizzazione. Dopo anni di precaria esistenza, tra prestiti e debiti accumulati, la vita della Moon Films minaccia ora di esaurirsi, trascinando nel baratro del fallimento il suo fondatore e tutte le persone che gli ruotano attorno. A quel punto, in un momento di eloquente lucidità, Grégoire decide di abbandonare la nave prima cha affondi, lasciando alle sue due famiglie (naturale e societaria) l'onere di salvare il salvabile, portando avanti la passione che egli nutriva per il cinema, una passione che aveva molto a che vedere con il senso di libertà che la settima arte concede a quanti ne comprendono appieno il senso.

Humbert Balsan rivive attraverso Grégoire Canvel

Davvero un plauso va a questa giovane regista francese, classe 1981 ed ex penna dei Cahiers du cinéma, che già aveva attirato l'attenzione con la sua opera prima, Tout Est Pardonné del 2007, mai distribuita in Italia e che doveva essere prodotta in Francia proprio dall'Humbert Balsan al quale s'ispira questo film, produttore appassionato di cinema indipendente che nel 2005 si tolse la vita perché incapace di sopportare l'imminente bancarotta della sua società, cui aveva dedicato un'intera vita di passione e lavoro. Mia Hansen-Love conobbe e frequentò Humbert Balsan proprio perché questi avrebbe voluto produrre il primo film della regista, come realmente fece per tanti altri registi talentuosi ma privi di appeal commerciale, che altrimenti non sarebbero mai stati prodotti. Lo stesso Humbert Balsan cui va il merito di aver aperto la strada a mondi cinematografici meno noti, da quello arabo a quello femminile, portando all'attenzione del pubblico registi come Youssef Chaihine, Elia Suleiman, James Ivory o Sandrine Veysset. Ed è proprio la frequentazione (durata circa un anno) con il produttore Balsan, una figura avvolta da un'aura seducente e magica, ad aver lasciato un segno indelebile nella regista, che ha dunque deciso di raccontare l'emozione di quella conoscenza in questo suo secondo film, nel quale Humbert Balsan diventa Grégoire Canvel, anche al fine di prendere le distanze da un lavoro prettamente biografico, e poter piuttosto raccontare l'uomo e sondarne lo spirito, attraverso la malia che questi esercitava su chi lo frequentava.

Una luce si spegne, la vita continua...

Mia Hansen-Love gestisce il film con grande sobrietà, attenzione estetica e misuratezza, rifuggendo dal cliché del dramma familiare post-mortem, affidando invece alla stessa morte, una sobria uscita di scena solo accennata, il ruolo di trait d'union tra prima e seconda parte dell'opera. E se nella prima il brio e l'unità famigliare dei Canvel si estrinseca attraverso le risate argentine delle due figlie più piccole, o attraverso il rapporto intenso e lievemente più complesso tra padre e figlia adolescente (padre e figlia anche nella realtà), nella seconda parte sarà proprio la figlia maggiore a diventare catalizzatore delle emozioni della sua famiglia, incarnando l'infelicità spontanea delle sorelle minori (perché non ha pensato a noi?), l'infelicità comprensiva di sua madre, e l'infelicità del padre, racchiusa in quel folle e lucido gesto che lo ha portato via. E in questa seconda parte, più che la moglie di Canvel (una misuratissima Chiara Caselli), il film ruota attorno a Clémence (Alice de Lencquensaing) e alla sua presa di coscienza della figura del padre, fatta di segreti e desideri, che poi la porterà a rilevarne l'incanto nell'ultima toccante scena, in cui alle eloquenti lacrime farà da sottofondo la magnifica leggerezza di Que sera sera. E la vita continua. Ma l'attenzione della regista è riposta soprattutto nella credibilità della sua storia: fin dalle prime inquadrature tutti i protagonisti ci appaiono molto umani, forse grazie anche alla presenza di un trio di figlie davvero straordinarie, che nelle scene corali di vita famigliare emanano davvero una sorta di bucolica serenità. Strepitose poi le prove di Luis-Do de Lencquensaing e sua figlia: tanto aristocratico e seducente lui, quanto taciturna e di un'eloquente fragilità lei. Tutto è raccontato attraverso gesti e simboli: dalla frenesia di Canvel, perennemente imbrigliato ai suoi telefonini, passando per l'amena briosità della vita famigliare, tra arti e cinema sullo sfondo di una Parigi in continuo fermento (proprio come l'anima di Grégoire Canvel), fino al black out improvviso che parla candidamente dell'elaborazione di un lutto, un attimo di oblio che è propedeutico a quel ritorno alla luce, traumatico o gioioso, che può avvenire solo dopo un'intima elaborazione del dolore. Quando una luce si spegne, la vita continua. Se la luce era molto forte, allora (forse) continuerà a brillare attraverso il ricordo dei suoi cari...

Il padre dei miei figli Prendendo spunto da una storia vera e rielaborando la materia in una riflessione personale, la regista Mia Hansen-Love, dopo l’apprezzato Tout Est Pardonné del 2007, realizza un film sui traumi famigliari e sul potere lenitivo del cinema, inteso come passione anestetizzante. Grazie a un cast molto ben assortito e sempre misurato, una regia lieve e coinvolgente, Il padre dei miei figli colpisce per essere un film drammatico che non fa leva sulla disperazione scaturita dal dramma, cercando invece di utilizzare l'evento tragico come escamotage per parlare della forza straordinaria di alcune vite, capaci di lasciare tracce indelebili della loro esistenza.

7.5

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