Recensione Il Ministro

Reduce dai thriller Circuito chiuso e The stalker, Giorgio Amato si dedica alla black comedy raccontando ne Il ministro una cena che si rivela lo specchio di una squallida Italia corrotta d'inizio XXI secolo.

Recensione Il Ministro
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Con molta probabilità, il 2016 rischia di rimanere l'anno in cui buona parte dei più riusciti lungometraggi visti nelle sale cinematografiche hanno sfruttato come unica ambientazione una stanza o, comunque, uno spazio chiuso.
Perché si è cominciato con l'affascinante western a tinte splatter The hateful eight di Quentin Tarantino, per poi rimanere sorpresi dalla riunione tra amici dai risvolti piuttosto amari raccontata da Paolo Genovese in Perfetti sconosciuti, aggiudicatosi addirittura il David di Donatello nella categoria relativa al miglior film.
E, concepito con molti meno mezzi, non sembra essere da meno Il ministro, che, terza fatica registica per il milanese classe 1969 Giorgio Amato, prende ispirazione dal brano di Fabrizio De André Il Re fa rullare i tamburi per porre al proprio centro un preciso aspetto: se trecento anni fa l'avidità umana puntava al titolo nobiliare, oggi è disposta a tutto pur di ottenere un appalto.
Appalto che è anche quello pubblico che desidera ottenere un imprenditore sull'orlo della bancarotta con le fattezze di Gianmarco Tognazzi grazie all'intervento di un ministro incarnato dal gomorriano Fortunate Cerlino, invitato a cena nella propria casa nel tentativo di corromperlo.

Il gelo in una stanza

Cena nel corso di cui, appoggiato dalla moglie vegana Alessia Barela e spalleggiato nell'impresa dal cognato e socio interpretato da Edoardo Pesce, oltre ad una cospicua tangente il protagonista fa trovare al politico una ragazza orientale da offrirgli come "pasto da letto" e cui concede anima e corpo la Jun Ichikawa de La terza madre.
Ragazza che non manca di osservare che l'Italia sarebbe il posto più bello del mondo se non vi fossero gli italiani e che, però, non sembrerebbe essere disponibile come credevano gli artefici della serata, alimentando la tensione nei confronti della sua evoluzione.
Man mano che è anche la domestica sul filo della disperazione Ira Fronten a completare il quadro di una attenta analisi tra quattro mura di quello che è il tanto corrotto quanto squallido stivale tricolore d'inizio terzo millennio, gestito da criticabilissimi individui che la maggior parte delle persone preferisce assecondare per il proprio tornaconto anziché ribellarsi alle spesso non condivisibili regole del potere.
Una attenta analisi tra quattro mura che, proprio come I mostri di Dino Risi rientrante tra le dichiarate fonti d'ispirazione per l'operazione in questione, spinge comunque lo spettatore alla risata agrodolce nella costruzione della drammatica situazione generale.
Basandosi principalmente sulle ottime prove sfoggiate dai diversi elementi del cast, ma senza perdere mai d'occhio l'importanza di una scrittura - per mano dello stesso regista - infarcita di dialoghi interessanti (tra i molti, "A vent'anni siamo tutti comunisti, poi passa") e capace nella maggior parte dei casi di spiazzare il pubblico... mentre il ritmo generale funziona a meraviglia e si approda ad una significativa rilettura de La società dei magnaccioni nei titoli di coda.

Il Ministro Gli scandali, le tangenti, la corruzione e tutto ciò che riguarda i rapporti tra i politici meno onesti e imprenditori senza scrupoli rientra tra le tematiche che Giorgio Amato affronta nello spazio chiuso di un’ambientazione tipicamente teatrale ne Il ministro, al cui centro abbiamo un Gianmarco Tognazzi tutt’altro che distante dai viscidi personaggi portati a suo tempo sullo schermo dall’indimenticabile padre Ugo. E si tratta soltanto di uno degli elementi vincenti dell’insieme, ritmata e coinvolgente commedia dolce-amara concepita in poco tempo e a basso costo che, non avendo nulla da invidiare a produzioni decisamente più grosse, si rivela l’opera più riuscita del regista, già responsabile degli apprezzabili thriller Circuito chiuso e The stalker.

7

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