Il marchio del demonio, la recensione del film Netflix

Il regista messicano Diego Cohen dirige un horror esorcistico a basso budget che scade in più occasioni nel ridicolo involontario.

Il marchio del demonio, la recensione del film Netflix
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Un anziano prete sta praticando un esorcismo a un bambino in una remota località delle campagne messicane. Il rito non va a buon fine e il corpo inerme del piccolo viene gettato in un fosso per timore che lo spettro che lo aveva posseduto possa liberarsi nella piccola comunità. Trent'anni più tardi si scopre che questi non era in realtà morto, ma era sopravvissuto e adottato da Tomas, un prete esperto di sovrannaturale con un problema di dipendenza dalle droghe. È ossessionato dal traumatico passato e "convive" con lo spirito di un demone, che gli garantisce straordinari poteri nonché una fame a volte insaziabile di carne umana (ma le sue vittime sono sempre individui che "meritano di morire").
Il salvato Karl e Tomas decidono quindi di aiutare due giovani sorelle, una delle quali è stata "contagiata" da uno spirito maligno, a trovare la via per la salvezza prima che sia troppo tardi.

Un diavolo a basso costo

Il filone esorcistico continua a produrre ogni anno decine di produzioni a tema, la maggior parte delle quali di infima qualità e spesso d'impostazione low-budget. Il marchio del demonio (disponibile nel catalogo Netflix come original) risponde appieno a questa duplice definizione, rivelandosi un film fallimentare e involontariamente ridicolo che cita a più riprese classici e cult del genere senza una precisa coerenza narrativa, raschiando il fondo del barile pur di arrivare alla durata minima di 80 minuti.
Con un budget di 900.000 dollari il regista Diego Cohen, già dietro la macchina da presa dei mediocri Romina (2018) e Luna de miel (2015), utilizza qua e là effetti speciali dal taglio splatter per infondere un po' di emoglobinica verve all'altrimenti spenta narrazione. Si riduce poi nelle fasi finali a un paio di sortite action, condite da rallenty gratuiti, che finiscono per scatenare grasse risate nella loro dozzinalità.

Un film maledetto

Il tocco dark e quasi fumettistico, che si connota su soluzioni forzatamente fantastiche, può riportare alla mente echi della serie cartacea Constantine. Così la stessa caratterizzazione del personaggio di Karl, un prete super-umano con la sigaretta accesa sempre in bocca e un veemente appetito sessuale. Sfumature sulla carta interessanti ma che perdono di qualsiasi credibilità per via di una sceneggiatura che non si prende cura delle varie pedine coinvolte, con le due sorelle al centro del racconto prive di personalità e le figure di contorno assolutamente inutili, se non deleterie, allo svolgimento dell'insieme. Flashback che svelano progressivamente ciò che era già stato ampiamente intuito dal pubblico, un make-up grossolano e rimandi ai topoi canonici, dalle frasi pronunciate in latino ad antichi tomi che richiamano il Necronomicon.
Un tentativo, fallito, di creare un'atmosfera horror tramite sporadici jumpscare e situazioni ambientali abusate: Il marchio del demonio si spegne lentamente in un nulla di fatto che in certe occasioni sembra addirittura fuoriuscito dalla scena amatoriale. Ed è inspiegabile la partecipazione di un attore di razza quale Eduardo Noriega nelle vesti talari del combattuto Tomas.

Il marchio del demonio Dalla scritta iniziale che cita Lovecraft - "Non è morto ciò che in eterno può attendere, e col passare di strani eoni, anche la morte può morire" - alla scena tra i titoli di coda che apre le porte a un sequel, nel corso della visione si assiste alla fiera del ridicolo involontario in un horror a basso budget e scarse idee che si aggiunge alle copiose produzioni esorcistiche. Il marchio del demonio è un film irricevibile. Una trama lineare capace di condurre presto alla noia per via di risvolti assurdi e caratterizzazioni dei personaggi ai minimi storici, con la paura e il terrore che lasciano il posto a scene improbabili e prive di qualsiasi pathos che scadono nel trash. E anche i pochi spunti potenzialmente accattivanti finiscono alla deriva per via di errori di scrittura e relativa messa in scena più affini a un cinema amatoriale che al grande schermo.

4

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