Recensione Il grande quaderno

L'ungherese Janos Szasz racconta l'orrore del conflitto ad altezza bambina, con una sorta di fiaba gotica che disvela la brutalità del male sostituitasi per necessità e istinto di sopravvivenza alla spensieratezza bambina

Recensione Il grande quaderno
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Ungheria, fine seconda guerra mondiale. Animata dalla speranza di farli sopravvivere, una madre conduce i suoi due figli (gemelli) in un piccolo borgo di campagna sperduto in mezzo al nulla, a casa della madre (nonna dei bambini). Vecchia megera conosciuta in paese come ‘la strega', la donna accetterà suo malgrado il compito di tutore assegnatole dalla figlia. Ma tra l'orrore della guerra che ancora incombe e il fare dittatoriale di una nonna per nulla amorevole (e pur sempre l'unica famiglia che ora rimane loro), per i due ragazzini la sopravvivenza si tradurrà in un lungo e faticoso percorso di formazione al dolore, al male e all'orrore circostante che sembra regnare su tutto. Decisi a mettere in pratica ogni ‘esercizio' utile (abituarsi ai dolori corporali e finanche a soffrire il freddo e la fame) al fine di allenare i loro corpi alle condizioni estreme in cui vivono, i due gemelli educheranno corpo e spirito al peggio, memori delle parole amorevoli della madre eppure sempre più lontani dal calore di sentimenti positivi, sempre più consapevoli della durissima prova di resistenza che li aspetta. In un mondo privo d'amore e di compassione, depredato anche degli ultimi segni di carità (gli ebrei sfilano in massa verso la deportazione mentre una giovane donna si fa beffe di loro offrendo e negando una fetta di pane imburrata), sarà l'idea di appuntare su un grande quaderno (Il grande quaderno del titolo) e nella maniera più oggettiva e realistica possibile le loro giornate, l'unico barlume di speranza tracciato in quelle pagine di buio diffuso, l'unico ostacolo posto alla tragedia di una separazione che si profila ogni giorno di più come un destino potenzialmente fatale.

L'orrore gotico del mondo reale

Il regista ungherese Janos Szasz traspone per il cinema il primo libro tratto dalla trilogia best seller di Agota Kristoff La trilogia della città di K. Lo fa rileggendo gli orrori della guerra ad altezza bambina, raddoppiando il punto di vista grazie alla presenza di una coppia di gemelli protagonisti (legati da un legame fortissimo e sempre in simbiosi a partire dall'abbigliamento speculare), e immergendo la storia in un'atmosfera da fiaba gotica, dove la forte caratterizzazione dei personaggi è propedeutica alla transizione da vita reale a racconto dell'orrore. Insensatezza e spietatezza degli eventi vanno dunque a braccetto verso la costruzione di quel cinismo disarmante che servirà poi lungo il percorso da arma di sopravvivenza. Bello e inquietante nella riproduzione di un mondo nero, sempre più cinico e maledetto, Il grande quaderno soffre forse un po' la staticità di una trasposizione priva di uno slancio deciso, quel guizzo che avrebbe potuto magari rendere l'opera più indipendente dalla sua matrice letteraria e forse un pochino più brillante. Ciò nonostante, resta un'opera originale e interessante che si fa apprezzare in particolar modo per la nitidezza dei lineamenti dark che la definiscono, per la presenza di due piccoli attori davvero funzionali nella dimensione di fiaba nera e quasi magnetici nella loro cupezza, e infine per la crudezza con cui offre allo spettatore l'inquietante idea di un aderire e adeguarsi al male circostante pur di avere una chance finale di ‘fare salva la pelle'.

Il grande quaderno Il regista ungherese Janos Szasz traspone per il cinema il primo libro della trilogia bestseller di Agota Kristoff “La trilogia della città di K”. Ne viene fuori un film assai cupo, una sorta di fiaba gotica sugli orrori della guerra e la necessità di adeguarsi (per due fratelli poco più che bambini) al male pur di sopravvivere. Nonostante una certa staticità dettata forse da un’estrema aderenza alla fonte ispiratrice letteraria, Il grande quaderno si dimostra film molto originale sia dal punto di vista della messa in scena sia da quello prettamente narrativo. Valore aggiunto sono poi senz’altro le interpretazioni dei due giovanissimi protagonisti, perfetti nella loro simbiosi esistenziale e nel rappresentare lo stato profondamente cupo di quell’aderenza al male in qualche misura salvifica.

7.5

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