Recensione Il cielo può attendere

Alla Mostra del Cinema di Venezia la versione restaurata della commedia classica di Ernst Lubitsch, divertente racconto in flashback di un'esistenza di un dongiovanni innamorato della moglie.

Recensione Il cielo può attendere
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Il nome di Ernst Lubitsch, oltre a risultare nel gotha della Hollywood classica, è sicuramente uno dei più seri candidati al titolo di Re della commedia. Al regista tedesco, naturalizzato statunitense, si devono infatti titoli seminali quali La vedova allegra (1934), Ninotchka (1939) e Vogliamo vivere (1942), forse i più famosi di una carriera sempre sulla cresta dell'onda. Altra sua opera fondamentale rimane per l'appunto Il cielo può attendere, datato 1943, che ora gode di nuovo delle luci della ribalta grazie alla copia restaurata proposta nei giorni scorsi alla Mostra del Cinema di Venezia. Primo film girato con la tecnica del Technicolor dal cineasta, vede nel cast volti assai noti dell'epoca come Don Ameche, la splendida Gene Tierney e il grande Charles Coburn, protagonisti di un racconto tratto dalla commedia teatrale Birthday di Ladislas Bus-Fekete e che inizia addirittura all'entrata dell'Inferno.

L'amore e il diavolo

Un anziano Henry Van Cleve è passato a miglior vita e si trova nella hall alle porte degli Inferi, dove viene accolto da Satana in persona. L'uomo chiede di essere ammesso poiché in vita ha commesso grandi peccati, primo tra tutti quello di esser stato un impenitente dongiovanni. Per provare quanto detto, il Diavolo gli chiede di raccontargli tutta la sua vita: Henry ripercorre così la sua esistenza sin dall'infanzia e nello scorrere degli anni si concentra soprattutto sul difficile rapporto con l'amata moglie Martha. La donna, che doveva andare in sposa al cugino di Henry, decise infatti di fuggire con lui dando il via ad un matrimonio ricco allo stesso tempo di felicità e delusioni ma segnato sempre dall'amore reciproco.

Golden age of comedy

Commedia d'altri tempi in tutto e per tutto, dominata da una finezza oggi pressoché inimmaginabile, Il cielo può attendere è velato da istinti di malinconica amarezza ma a dominare nel cento minuti di visione è soprattutto la forza di un divertimento intelligente e affabile che trova nell'ispirato connubio di battute e gag un fascino ancor oggi dirompente. Se a dire il vero i dialoghi, in parte complice anche il (comunque ottimo) doppiaggio italiano dell'epoca, possono apparire a tratti desueti, le varie scenette, complici anche le interpretazioni (Charles Coburn è, come sempre, irresistibile), regalano risa e sorrisi a scena aperta, trovando nella tenera narrazione in flashback, introdotta dal voice-over del protagonista in più occasioni, il perfetto percorso logico-temporale. Un uomo mascalzone ma dal cuore d'oro in un universo di donne nel quale però soltanto una equivale all'amore di tutta una vita: Lubitsch evita la stucchevolezza anche nei passaggi più vagamente drama-oriented, lasciando all'epilogo il compito di chiudere il cerchio nel migliore dei modi. Con un Satana di rara simpatia, eguagliato soltanto da quello de L'occhio del diavolo di Ingmar Bergman, l'escamotage fantastico è il miglior incipit dal quale si poteva sviluppare un racconto che vuol dire tutto e nulla ma che all'interno di quel tutto e quel nulla lascia esplodere la magia del sentimento con freschezza e armonia.

Il cielo può attendere Commedia dell'età aurea di Hollywood, ennesimo classico del maestro Lubitsch, Il cielo può attendere è un film sulla vita e sull'amore che, evitando retoriche romanticherie ci racconta una love-story durata quasi trent'anni e il percorso formativo di un uomo attratto sin dall'infanzia dall'altro sesso in maniera irrefrenabile. Con una coppia di grandi protagonisti e uno stuolo di gustosissime figure secondarie (su tutte il nonno di Charles Coburn e i burberi genitori di Martha) il divertimento, mai banale, è assicurato e strappa sorrisi e risate a quasi ottant'anni dall'uscita in sala.

8.5

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