Recensione Il canto delle spose

Le donne, la guerra e la tradizione nella Tunisi del '42 secondo Karin Albou

Recensione Il canto delle spose
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Di film ambientati durante la seconda guerra mondiale ne sono stati realizzati a bizzeffe negli ultimi sessant'anni, con tutti gli stili e gli intenti possibili.
La maggior parte, tuttavia, si svolgono in Europa, o in territori direttamente collegati ai momenti clou del conflitto (Pearl Harbour, Hiroshima).
Molto più raramente abbiamo visto su schermo cosa succedeva nei territori “di confine” delle belligeranze, non da meno ricchi di episodi drammatici e di significativi risvolti umani. Il nordafrica, sede di protettorati e colonie italiane e francesi, ha vissuto gli strascichi delle alterne vicende delle due nazioni durante il lustro '40-'45: tra i paesi di quest'area non possiamo non contare la Tunisia, nazione nella quale è ambientato Il canto delle spose, opera seconda della regista Karin Albou.

Un'amicizia che trascende tutti i confini

E' il 1942, e di lì a poche settimane la Tunisia verrà occupata dalle forze dell'Asse, che instaureranno anche nel paese africano il famigerato Regime di Vichy, che comporterà, tra le altre cose, la perdita di ogni diritto acquisito dai cittadini tunisini di origine ebrea. Proprio come Myriam (Lizzie Brocherè) e sua madre Tita (interpretata dalla stessa regista e sceneggiatrice Karin Albou), che si ritrovano improvvisamente in miseria, e costretti ad accettare un matrimonio combinato fra la riluttante Myriam e il medico gentiluomo Raoul (Simon Abkarian). Myriam e sua madre condividono da sempre la casa con la famiglia di Nour (Olympe Borval), coetanea di Myriam e musulmana di discendenza. L'appartenenza a due culti diversi non è un problema, nella Tunisi multietnica dell'epoca: le differenze culturali sono parte di una tradizione da rispettare e, in qualche modo, ricchezze a cui attingere.
Questo, perlomeno, finché i nazisti (o meglio, la politica europea) non ci mette lo zampino, creando zizzania fra le etnie e dentro le etnie stesse.
Myriam e Nour, da sempre amiche per la pelle, si ritrovano catapultate dai giochi infantili alle necessità della vita adulta non senza traumi, scontrandosi coi limiti e le contraddizioni insite nelle loro condizioni di donne e credenti, “invidiandosi” a vicenda i lati positivi delle rispettive condizioni, in una subitanea girandola di eventi che le vede protagoniste e vittime, nel loro microcosmo, tanto della tradizione quanto del nuovo divenire scatenato dalla guerra.

Le donne, la guerra e la tradizione

Karin Albou, dopo La petite Jèrusalem, torna a parlare del rapporto fra le religioni tramite gli occhi e il vissuto di due giovani donne: ancora una volta, una ebrea e l'altra musulmana. La posta in gioco, in questa occasione, è ancora più alta, vista la giovanissima età delle due protagoniste de Il canto delle spose -appena sedicenni- e il difficile contesto storico nel quale la vicenda è stata inserita.
E' interessante notare come, anche se la guerra è il fattore scatenante della maggior parte dei conflitti fra i personaggi, essa rimane quasi sempre sullo sfondo: quello che accade all'estero e le reali motivazioni politiche e culturali di quello che succede sono sconosciuti o vissuti solo per interposta persona.
E il conflitto, così come la vita, viene vista solo tramite gli occhi e l'esperienza diretta delle donne, in particolare delle due protagoniste. Quello che la Albou è interessata a mostrare non è tanto il lato violento degli atti di guerra quanto la violenza delle sue conseguenze sulle vite delle donne e delle ragazze dell'epoca.
Molto più ingenue delle coetanee d'oggigiorno, eppure molto più cariche di responsabilità già dall'adolescenza.
Myriam e Nour, in realtà, sono due facce di una stessa medaglia, ingabbiate in un meccanismo più grande di loro, tra tradizioni patriarcali e matriarcali a volte imponenti a volte, semplicemente, degradanti. La propaganda politica, che contribuisce ad infiammare anche gli animi di chi è sempre riuscito a convivere pacificamente, aggrava poi un conflitto che vede, in ognuno, una vittima e contemporaneamente un carnefice.
La ricostruzione storica del film è notevole, curata in prima persona dalla regista, che è ella stessa di origini algero-tunisine: l'atmosfera che la pellicola fa rivivere è al contempo affascinante e opprimente, ricca di un punto di vista femminile che tutto scruta eppure poco riesce a vedere nella sua interezza. Le donne vivono il mondo esterno tramite le voci e i rumori che vengono da fuori le case, tramite la radio, tramite le chiacchiere nell'hammam e le rari incursioni al mercato. Un universo squisitamente femminile che le protagoniste vorrebbero scardinare, ma che, in quanto donne esse stesse, non riescono a fare.
La macchina da presa indugia molto sulla denuncia sociale di certe condizioni del periodo, in certi casi perpetrate ancora oggi, e in generale sulla figura della donna in certe società, dove la figura femminile è ben lungi dall'essere davvero emancipata, probabilmente anche per mancanza di volontà e/o quasi incosciente abnegazione ad un ruolo fuori tempo.
Bravissime le due interpreti principali: la Brocherè, nota in Francia per i suoi ruoli in varie fiction tv (tra cui il remake transalpino del nostro R.I.S. Delitti Imperfetti) riesce ad imprimere sul volto tutto ciò che Myriam prova e pensa, mentre la Borval, assoluta esordiente, trasmette con semplicità il pensiero altrettanto semplice e diretto di Nour, creando un'ottima amalgama fra le due che per certi versi sorregge tutto il film.
Interessanti, ambigue e molto significative le uniche due figure maschili del film, ovvero il fidanzato di Nour, Khaled (Najib Oudghiri) e il dottor Raoul, mentre la Albou se la cara discretamente nei panni della madre di Myriam, seppur non sia, questo, un ruolo centrale nella vicenda.
Vicenda che è altamente strutturata: si nota subito come la sceneggiatura sia il frutto di diverse riscritture portate a termine nel corso degli anni, scena dopo scena, inquadratura dopo inquadratura.
Peccato solo che la raffinatezza di certi passaggi (il film è pieno di delicati messaggi pieni di intelligenti metafore) sia controbilanciata da alcune scene troppo reiterate sulla violenza -in gran parte psicologica- che le ragazze subiscono dalla società.

Il canto delle spose Il canto delle spose è un film forte, che non risparmia sulla potenza delle immagini e delle situazioni, sull'ambiguità dei suoi personaggi in continuo bilico fra bianco e nero, sulla quantità di messaggi veicolati al suo interno, tra ricordi, denunce e memoriali. Scritto e diretto con occhio e cuore spiccatamente femminile, colpisce e vive nei cuori e nelle menti degli spettatori, nonostante alcune scene troppo esasperate nel loro slancio di denuncia sociale, che se mantenuta più sottesa avrebbe comunque mantenuto la sua forza, ma con maggior garbo. Siamo ora curiosi di vedere come matureranno ulteriormente tematiche e stile della Albou nel suo prossimo La Douleur.

7

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