Idol, la recensione del thriller coreano

Un film ricco di spunti ma confusionario, nel quale la morte di un giovane inagura un ambiguo confronto tra un noto politico e il padre della vittima.

Idol, la recensione del thriller coreano
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Koo Myung-Hui è un importante esponente politico, dato per favorito alle imminenti elezioni per la carica di governatore. Una sera l'uomo fa ritorno a casa e trova la moglie nel garage, intenta a ripulire una delle macchine da del sangue; nei pressi della vettura vi è infatti il corpo senza vita di un ragazzo, investito dal figlio di Koo solo poche ore prima. Il capofamiglia spinge il giovane a denunciare il fatto e ad assumersi le proprie responsabilità, anche per evitare possibili ripercussioni qualora la notizia fosse venuta alla luce dopo un potenziale insabbiamento.
Yoo Joong-Sik, il padre della vittima, è distrutto dal dolore ma al contempo determinato a far luce sull'accaduto e a ritrovare ancora in vita la moglie del figlio, una ragazza di origini cinesi che risulta ora scomparsa nel nulla. Durante le indagini avranno luogo inquietanti rivelazioni che potrebbero rimettere tutto in gioco.

Il terzo uomo

Non ci troviamo di fronte a un thriller canonico, almeno per ciò che concerne gli standard coreani, ma bensì a un'opera concettualmente densa e stratificata che all'interno del copioso minutaggio cerca di inserire molteplici spunti etici e sociali, finendo paradossalmente per risultarne schiava.
Idol, presentato al Florence Korea Film Fest 2020, è un film che si perde strada facendo e dopo un inizio accattivante e dalle grandi potenzialità finisce per affastellare una serie di eventi e situazioni sempre più caotiche e confusionarie.
Nelle due ore e venti di visione l'intreccio inserisce personaggi poi dimenticati in un batter di ciglia e il diramarsi in sottotrame inespresse nella loro complessità toglie lucidità all'intero insieme, rendendo il contesto mystery inizialmente suggerito un mero specchietto per le allodole, veicolo di curiosità che non trova adeguato riscontro nell'effettiva risoluzione dei fatti.

Una narrazione sbilanciata

Il regista Lee Su-jin non replica il successo del precedente e acclamato Han Gong-ju (2013), un titolo impostato proprio su un raffinato e imprevedibile meccanismo narrativo, e sembra qui smarrire la quadra di una storia che cresce senza la necessaria armonia tra i personaggi e i passaggi chiave, scadendo di sovente in soluzioni gratuite che penalizzano il pur discreto tessuto tensivo.
Dal punto di vista stilistico la messa in scena è appagante e potente, con alcune sequenze/scene madri riccamente suggestive e un paio di vaghi rimandi all'horror, e le performance del solido cast permettono di chiudere mezzo occhio sui più evidenti difetti in fase di scrittura.
Il problema principale di un'operazione come Idol è che non si comprende bene dove il racconto voglia andare a parare, con il discorso sul senso di colpa che scema troppo in fretta ed è comunque ingabbiato da accese ambiguità.
Il tema dell'immigrazione clandestina è trattato in maniera sbrigativa, ennesimo orpello di una vicenda in cui i punti oscuri e le questioni lasciate in sospeso finiscono per appesantire l'intero racconto.
La lotta di classe, la corruzione ai più alti livelli e la dabbenaggine della polizia sono altri spunti che fanno capolino qua e là a tentare di rendere più frizzante lo schema generale, ma come spesso accade quantità non fa rima con qualità.

Idol Le ottime performance del cast e un’altrettanto convincente messa in scena, con regia e fotografia sugli scudi, non bastano a coprire gli evidenti limiti di una sceneggiatura intricata oltre misura, dove i numerosi plot twist e alcune lacune nella gestione dei personaggi secondari rischiano di minare alla base la credibilità del racconto. Nella prima parte Idol riesce effettivamente a catturare l'interesse dello spettatore, peccato che col procedere degli eventi la storia finisca per affastellare situazioni sempre più forzate e improbabili che raggiungono il loro apice nel convulso epilogo, impedendo anche agli spunti etici e sociali suggeriti di trovare una propria armonia all'interno dell'insieme. La durata di circa due ore e mezza, eccessiva per quanto mostrato, non fa che complicare le cose e il risultato finale risulta compromesso dalle alte, mal riposte, ambizioni di partenza.

5.5

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