Recensione Hereafter

Recensione del film di Clint Eastwood interpretato da Matt Damon

Recensione Hereafter
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Abbiamo avuto modo di farne la conoscenza come ispettore Callaghan, come "Buono" di Sergio Leone, come texano dagli occhi di ghiaccio e anche come uomo dalla cravatta di cuoio.
Classe 1930, il californiano Clint Eastwood, giudicato proprio da Leone attore dotato di due sole espressioni, una con il sigaro ed una senza, ha in realtà avuto modo di affermarsi nel corso della sua lunga carriera come personalità cinematografica non poco interessante.
Non a caso, al di là dei primi passi nell'universo della celluloide, affrontati attraverso ruoli secondari nei fanta-cult di Jack Arnold Tarantola (1955) e La vendetta del mostro (1955), è entrato a far parte dell'immaginario collettivo prima, negli anni Sessanta, grazie alla mitica figura - di derivazione kurosawiana - del pistolero solitario protagonista della "Trilogia del dollaro", poi, nel decennio successivo, tramite quella del poliziotto di ferro tutto pugni e pistola, ispiratore del popolare cinema poliziottesco italiano.
Ma è soltanto dal 1971, anno in cui diresse il thriller Brivido nella notte, che è stato possibile cominciare ad apprezzarlo anche dietro la macchina da presa, tanto che, a quell'esordio, fecero seguito una trentina di regie, spazianti dalla commedia (Per piacere... non salvarmi più la vita) alla fantascienza (Space cowboys), passando per il drammatico (I ponti di Madison County) e il biopic musicale (Bird).
Una carriera che gli ha consentito di sfornare veri e propri gioielli(ni) della Settima arte del calibro di Mystic river (2003), tratto dall'omonimo romanzo di Dennis Lehane, e Gran Torino (2008), del quale è stato anche protagonista, riuscendo perfino a conquistarsi il premio Oscar con il western Gli spietati (1992) e con il dramma sportivo Million dollar baby (2004).

Tre vite e una sola morte

Una carriera che, dopo Invictus (2009), riguardante la finale della Coppa del mondo di rugby del 1995, prosegue - sotto la produzione esecutiva di Steven Spielberg - con questo Hereafter, che riprende dalla pellicola precedente il protagonista Matt Damon per porlo nei panni dell'operaio di San Francisco George, il quale è in grado di parlare con i morti, ma non vuole farlo.
Prima, però, facciamo conoscenza con la giornalista francese Marie alias Cécile de France, reduce da un'esperienza tra la vita e la morte provata nel momento in cui è stata violentemente trascinata in acqua da un terribile tsunami abbattutosi su una cittadina balneare indonesiana.
Personaggio la cui esistenza, appunto, finisce per essere afflitta dall'interesse nei confronti di cosa ci attende nell'aldilà, come pure quella del giovane studente londinese Marcus, interpretato dagli esordienti George e Frankie McLaren, il quale va alla ricerca disperata di una risposta dopo aver tragicamente perso in un incidente stradale il fratello gemello Jason, a cui era profondamente legato.

La (troppa) quiete dopo la tempesta

Quindi, nell'epoca in cui la tecnologia, pur avendo effettuato veri e propri passi da gigante, non sembra essere ancora in grado (e probabilmente mai lo sarà) di spiegare cosa avvenga dopo che le nostre anime hanno abbandonato il mondo dei comuni mortali e come una persona possa scomparire per sempre, inevitabilmente interessante risulta un lungometraggio di questo tipo, volto anche a mostrare in che modo possa continuare a vivere chi rimane.
Un lungometraggio che Eastwood, appena superati i titoli di testa, apre proprio attraverso la spettacolare e coinvolgente sequenza dello tsunami, degna del miglior disaster-movie e capace ancora una volta di testimoniare che dietro la camera si trovi quello che possiamo tranquillamente definire un maestro delle immagini in movimento.
Maestro il cui talento è riconoscibile, però, soltanto nel corso di quei primissimi minuti di visione, in quanto, superato il momento che ci mostra l'incidente di Jason, sembra essere interessato più a ciò che i protagonisti - tutti ottimamente resi dai diversi interpreti - raccontano, che al modo efficace in cui farglielo raccontare.
Infatti, con i dialoghi a dominare incontrastati, è un taglio eccessivamente letterario quello che finisce per conferire ai circa 129 minuti totali di pellicola (non pochi, dunque), costruiti nella maniera più classica sulla progressiva presentazione dei personaggi e che annoverano tra i pochi momenti coinvolgenti quelli divertenti in cui il piccolo Marcus si trova a consultare una serie di truffaldini sensitivi.
Per il resto, a causa soprattutto dei troppo lenti ritmi di narrazione, è difficile non rimanere avvolti dallo spettro della noia, dinanzi ad un elaborato che, oltretutto, anziché presentare le fattezze di un prodotto partorito dall'autore di Changeling (2008), presenta i connotati di quello che potrebbe tranquillamente essere confuso per uno dei meno riusciti - seppur guardabili - lavori di M. Night Shyamalan. Regista che, guarda caso, ha più volte avuto nei suoi film la Bryce Dallas Howard presente anche in questo.

Hereafter “Non sappiamo cosa c’è dall’altra parte. Ognuno ha le proprie credenze su quello che c’è o non c’è, ma siamo sempre nel campo delle ipotesi. Nessuno può saperlo fino a che non ci si arriva”. A parlare è l’attore-regista Clint Eastwood, il quale, dopo Invictus (2009), attraverso cui propose un onesto prodotto sportivo ottimamente interpretato da un Matt Damon al suo meglio, torna a dirigere il protagonista della serie spionistica incentrata sull’agente Jason Bourne in un racconto su celluloide volto ad esplorare le vite di tre diverse persone interessate a scoprire cosa ci attenda dopo la morte. Ma, come già avvenuto con l’opera precedente, lontane sembrano le invidiabili vette artistiche raggiunte con titoli del calibro di Mystic river (2003), Changeling (2008) e Gran Torino (2008), in quanto Hereafter, dialogatissimo e caratterizzato da un taglio eccessivamente letterario, finisce soltanto per fornire oltre due ore di visione guardabili e niente più. Due ore di visione che funzioneranno probabilmente meglio quando trasmesse in televisione, dove i poco incalzanti ritmi narrativi rischiano meno di generare noia.

6

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