Recensione Henry

Il romanzo criminale di Alessandro Piva

Recensione Henry
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Cinematograficamente parlando, il nome Henry può far venire in mente diversi classici o cult-movie, dal violento Henry-Pioggia di sangue (1986) di John McNaughton al drammatico A proposito di Henry (1991) di Mike Nichols.
Nel terzo lungometraggio diretto dal salernitano classe 1966 Alessandro Piva, autore de La capagira (2000) e Mio cognato (2003), però, l'Henry del titolo (che è anche quello del romanzo di Giovanni Mastrangelo da cui l'operazione prende liberamente le mosse) non è una persona, bensì quella famigerata sostanza che provvede a dare dipendenza e a portare spesso alla morte meglio conosciuta come eroina.
L'eroina attorno a cui ruotano tre giorni di delitti, fughe e sospiri d'amore di malandrini vecchi e nuovi che si inseguono, sotto la minaccia di una guerra tra clan, in una Roma che non è quella dei papi e delle auto blu, ma una capitale tricolore dal volto meticcio, randagio e oscuro.
Con un'insegnante di aerobica che frequenta poche persone e sbagliate, un fidanzato tossico e infantile, un ex fotografo tanto cinico quanto drogato, una banda di malavitosi meridionali e una gang di africani impegnati a conquistare il mercato della micidiale polverina. Senza contare due poliziotti impegnati a indagare su un duplice omicidio.

Second opinion, a cura di Francesco Manca

Prodotto alquanto atipico se confrontato con gli standard dell’odierna produzione cinematografica tricolore, Henry fa della coralità il suo tratto distintivo. Siamo dalle parti di Roma violenta e Il trucido e lo sbirro, quei tanto amati/odiati b-movies nostrani che una volta animavano il sottobosco del cinema italiano: e non si fatica a percepire una reale volontà di tornare a fare cinema come lo si faceva una volta, con pochi mezzi, pochi soldi, ma tante idee, le quali si vanno man mano a concretizzare sul grande schermo, facendo da cuore pulsante a un racconto estremamente realistico e che stupisce per la propria compattezza, nonché per il modo in cui spiazza lo spettatore.

Roma drogata

E sono il Claudio Gioè de La meglio gioventù (2003), Aurelian"Iago"Gaya, Paolo Sassanelli, l'Eriq Ebouaney di The horde (2009), Michele Riondino (l'attuale Montalbano televisivo), Dino Abbrescia, Alfonso Santagata, Max Mazzotta, l'ottimo Pietro"La vita è bella"De Silva e una Carolina Crescentini più convincente del solito a concedere anima e corpo a questo manipolo di personaggi la cui violenta vicenda prende avvio nel tutt'altro che lussuoso quartiere di Tor Pignattara.
Perché, una volta tanto, ci troviamo dinanzi a un lungometraggio italiano d'inizio XXI secolo che non sfoggia i "problemi" dei giovani borghesotti del centro di Roma e, soprattutto, che non racconta l'ennesimo tour de force sentimentale del quarantenne single che lavora nel settore pubblicitario.
Una sorta di Romanzo criminale (2005) in piccolo, ma in salsa quasi Pulp fiction (1994), che, curiosamente, vede coinvolta anche la criminalità di colore prima del quasi contemporaneo Là bas-Educazione criminale (2011) di Guido Lombardi, che si svolge, però, intorno a Napoli.
Con i difetti tipici delle produzioni cinematografiche italiane concepite ricorrendo più al coraggio e alla voglia di fare che ai soldi, dalla recitazione non sempre efficace alle problematiche derivate dalla pochezza di mezzi; ma riuscendo a funzionare e a coinvolgere lo spettatore per i totali 86 minuti di durata, pur senza eccellere.
Del resto, il regista spiega: "Henry è un film incosciente e piratesco, dal punto di vista artistico come da quello produttivo, in barba alle regole di chi giudica il cinema con il telecomando in mano. Il plot di genere è solo lo spioncino, oltre la porta c'è la vera questione: capire dove stiamo andando e saperlo raccontare. Henry vuole scassinare la serratura, uscire dalla stanzetta nella quale, a parte rare e felici fughe, si è fatto chiudere da tempo il cinema italiano".

Henry Vincitore del Premio del Pubblico presso l’edizione 2010 del Festival di Torino, il terzo lungometraggio diretto dal salernitano Alessandro Piva sfrutta una girandola di più o meno grotteschi personaggi della periferia romana per raccontare una cruda vicenda di droga e violenza in cui il numero dei vinti è di gran lunga superiore rispetto a quello dei vincitori. Un prodotto a basso costo che, senza rinunciare a siparietti a loro modo surreali sfruttati dai protagonisti per raccontarsi, non eccelle ma rimane nella media, riuscendo a non lasciare deluso lo spettatore. E il merito più grande è individuabile nella scelta di raccontare una Roma decisamente lontana da quella borghese del quartiere Parioli o del centro storico. Ma la domanda sorge spontanea: per quale motivo, secondo il cinema italiano d’inizio XXI secolo, al di fuori delle succitate, lussuose zone, abiterebbero soltanto delinquenti e poco di buono?

6

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