Hard to be a God, la recensione: viaggio nella degradazione umana

Alexei German ci conduce in un tortuoso e difficile viaggio nelle abiezioni e nelle turpitudini della degradazione umana.

Hard to be a God, la recensione: viaggio nella degradazione umana
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È sempre un’impresa impervia accostarsi ad un’opera d’arte che, in qualche maniera, riscrive il linguaggio del proprio codice di riferimento, o perlomeno vi apporta delle significative innovazioni in termine di espressione, di stile e di contenuti. Si tratta infatti di elaborare un’analisi per la quale non si può contare su altri modelli di paragone, e per la quale è necessario addentrarsi in un territorio inesplorato. È quanto accade quando ci si trova di fronte ad un film come Hard to be a God, pellicola postuma del regista russo Aleksei German, scomparso il 21 febbraio 2013 a 74 anni d’età, dopo una carriera che in quasi mezzo secolo ha dato vita a sei lungometraggi (nessuno dei quali è mai stato distribuito in Italia). La presentazione di Hard to be a God in occasione dell’ottava edizione del Festival Internazionale del Film di Roma ha trovato dunque una ragion d’essere nella consegna di un premio onorario a German, ideale celebrazione di un itinerario artistico pressoché sconosciuto al grande pubblico.

Demoni e dei

Girato nell’arco di ben sei anni, dal 2000 al 2006, fra la Russia e la Repubblica Ceca, frutto di una colossale post-produzione interrotta dalla morte di German e portata infine a compimento con la collaborazione della moglie del regista, Svetlana Karmalita (anche co-sceneggiatrice del film), Hard to be a God è in realtà la seconda trasposizione cinematografica di È difficile essere un Dio, romanzo di culto della letteratura fantascientifica, pubblicato nel 1964 dai fratelli Arkadij e Boris Strugackij, già autori del soggetto letterario alla base del classico di Andrej Tarkovskij Stalker (la precedente, omonima riduzione del libro dei fratelli Strugackij risale invece al 1989, per la regia di Peter Fleischmann). La trama, nel film di German, pur rispettando la premessa del libro funge da puro pretesto: in un pianeta sconosciuto, in una civiltà che richiama il nostro Medioevo, un individuo ‘illuminato’ e onnipotente, Don Rumata, proveniente dal pianeta Terra, agisce come una sorta di divinità, contemplando le sofferenze, le abiezioni e le turpitudini di una popolazione sprofondata in una palude di dolore, di tortura e di totale degradazione dell’essere umano.

La sagra degli orrori

Messo da parte l’esoscheletro narrativo, ridotto davvero al minimo a dispetto dei 170 minuti di durata, Hard to be a God ha provocato reazioni diametralmente opposte alla sua proiezione al Festival: ferventi sostenitori pronti a consacrarlo seduta stante come un capolavoro epocale ed imprescindibile e spettatori in cui, al contrario, si è manifestato un sostanziale senso di rifiuto nei confronti di quasi tre ore di visione dall’impatto tanto estremo quanto - indubbiamente - logorante. Perché Hard to be a God, in parte sulla scia di un altro “film maledetto” quale Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini (ma con i dovuti distinguo), mette in primissimo piano l’orrore nel suo aspetto più concreto, carnale e perfino scatologico, in un tripudio di sevizie, di lamenti, di urla, di fluidi corporei, di escrementi, di umiliazioni e di mostruosità che si affastellano senza sosta sullo schermo, in un frenetico horror vacui che non risparmia nulla ai nervi o allo stomaco di chi è messo di fronte a questo orripilante spettacolo.

Fino in fondo all'abisso

Per un’opera tanto radicale e di difficilissima fruizione, è ancor più comprensibile che l’esito della visione sia affidato prevalentemente alla sensibilità di ciascun singolo spettatore. E tentando di mettere da parte le reazioni ‘viscerali’ e di oggettivizzare quanto più possibile la valutazione di un film di questo tipo, è innegabile riconoscere i meriti estetici di un’opera dal repellente fascino visivo, valorizzata per di più dalla suggestiva fotografia in bianco e nero di Vladimir Ilin e Yuri Klimenko. Ma pur ammettendo il carattere innovativo della pellicola di German e la sua capacità di infrangere le convenzioni tradizionali, chi scrive conserva il sospetto - o, se preferite, chiamatela perplessità - che una messa in scena tanto disturbante e sgradevole (a dir poco) non trovi il giusto contrappeso o la necessaria ragion d’essere nella materia narrativa del film, tali da giustificare tre ore di implacabile sadismo, in cui sembra impossibile rintracciare brandelli di umanità. Certo, l’intento di German era quello di rappresentare per immagini l’idea stessa del Caos, scaraventandoci fin nelle profondità dell’abisso; ma se i presunti rimandi allegorici alla Russia sovietica e ai gulag appaiono forse pretestuosi (ma soprattutto limitanti, a livello di esegesi), nel corso dei 170 minuti ci si trova più volte a domandarsi in quale momento la necessità - morale ed estetica - dell’orrore abbia ceduto il posto ad una ripugnanza irritantemente gratuita... e, ve lo assicuriamo, non è affatto semplice trovare una risposta.

Hard to be a God Basata sull’omonimo cult di fantascienza dei fratelli Strugackij, l’opera postuma del regista russo Aleksei German, destinatario del premio alla carriera al Festival Internazionale del Film di Roma 2013, è un allucinante viaggio negli abissi dell’orrore e della sofferenza, rappresentati attraverso una messa in scena di ripugnante concretezza e di difficilissima fruizione.

6.5

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