Recensione Gorbaciof

L'ostinato perdente di Toni Servillo in una Napoli levantina...

Recensione Gorbaciof
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Regista della "nuova generazione napoletana", accorto e sensibile ai temi di scottante e tragica umanità (Il Verificatore, Cuore di Vetro, Complici del Silenzio), Stefano Incerti sceglie per il suo ultimo film uno degli attori del panorama italiano più convincenti, Toni Servillo, cucendogli addosso un personaggio per molti aspetti controverso, che predica poco e razzola male, ma che alla fine riesce a farsi amare, per i suoi difetti forse più che per i suoi pregi. Per fare questo, il progetto filmico, che ha attraversato una lunga fase di gestazione, è stato (a detta del regista) adattato (riducendo all'osso i dialoghi) sempre più all'eloquenza mimica di Servillo, che accentra l'opera grazie alla sua refrattaria irruenza scenica e che per certi versi assomiglia a quel Titta di Girolamo che (ostinatamente) ignorava le conseguenze dell'amore.

Amore beffardo

Marino Pacileo, soprannominato Gorbaciof per quella vistosa voglia che gli colora la fronte, vive a Napoli (nel quartiere di Vasto) e conta i soldi, a mazzette, nel carcere di Poggioreale. È un uomo schivo, che si mescola alla società senza farne realmente parte, ma che sa all'occorrenza tirare fuori le unghie per non soccombere a essa. La sua è una vita routinaria: di giorno conta e mette da parte i soldi (quelli che preleva dalle casse del carcere) per nutrire il suo radicato vizio del gioco d'azzardo. Poi di sera, si ritrova nel retrobottega di un ‘cinese' per qualche mano di poker con il proprietario del locale e un ‘esimio' magistrato pronto a estorcere denaro o pagamenti in natura, pur di avere pagate le sue vincite al gioco. Ma la vita del giocatore inveterato, già impigliato tra le maglie di una Napoli informe, grigia e violenta alla stregua di molte altre metropoli, protetto e oppresso da un losco carceriere che tace i furtarelli di Gorbaciof per poi chiedere in cambio altri e sempre più grandi favori, si accende di nuova vita quando incontra Lila, la giovane cinese figlia dello sciagurato proprietario del locale dove si giocano soldi e ogni altro bene appetibile (incluse ragazze giovani e carine con spirito di devozione). Così per salvare il padre (e soprattutto Lila) che ha contratto un debito con il biscazziere togato, Gorbaciof finirà per prosciugare la cassa del carcere, mosso dal sogno di volare via con la sua bella dagli occhi a mandorla in cerca di altri, più candidi lidi. Ma la beffa, la burla, quella amara smorfia di sfottò che è spesso dipinta sul volto di Gorbaciof, farà capolino per un'ultima liberatoria e dissacrante risata, prima di ripagare il suo piccolo anti-eroe proletario, cieco d'amore, della sua stessa beffarda moneta.

Una Napoli orientale

Se il contenuto narrativo è simile a quello di molti altri film ambientati nella capitale partenopea, secondo il cliché ‘vivi Napoli e puoi muori', è l'aspetto esteriore a essere differente in quest'ultima opera del napoletano Incerti, che racconta la sua città attraverso i mille volti (eterogenei) che ogni giorno affollano le carrozze della metro, riversandosi poi per le vie di una città tanto più ostile e violenta quanto più ci si avvicina ai torbidi sottoscala o retrobottega di quartiere, dove i conti si risolvono con le botte o le pistole. Una Napoli per certi versi molto orientale, grazie anche alla presenza di Lila (la cinese Yang Mi, che nello script originale doveva essere una ragazza napoletana), cha porta con sé non solo tutto il fascino esotico del suo incarnato roseo, ma anche quella incomunicabilità superficiale che diventa comprensione più profonda, voglia comune di liberarsi di chiavi, lucchetti, immarcescibili serrature del cuore. La camera marca stretto i volti dei due protagonisti, forse lo yin e lo yang di una stessa pagina di vita, giorno e notte complementari l'uno all'altra, muoversi in punta di piedi tra pestaggi, corruzione, malavita, prostituzione, per poi volare alto con un trolley in aeroporto o indugiare di fronte a una malinconica tigre rinchiusa in una gabbia del giardino zoologico, che come loro vagheggia la fuga. L'opera si regge in gran parte sulla pantomima di un Toni Servillo strizzato nella sua giacchetta e in forma smagliante, taciturno e maledettamente comunicativo, supportato dallo sguardo incantato e incantevole delle sua Lila, tutto il resto (comprese le ridondanze e le digressioni narrative) è sfocato, in secondo piano, quasi non conta. E forse nemmeno il beffardo epilogo, non una stoica immolazione come quella del Titta di Sorrentino, ma la stolida fine di un ingenuo personaggio, non riesce a spegnere la magia narrativa del taciturno e funambolesco Gorbaciof, che racchiude in sé tutto il pathos e il lirismo di un ostinato perdente.

Gorbaciof Il partenopeo Stefano Incerti torna al cinema mettendo in campo la bravura mimica di Toni Servillo, per un film molto ‘orientale’, con poche battute, molti primi pani e una particolare attenzione al dettaglio, agli sguardi. Se il film ogni tanto si perde in qualche vicolo narrativo, è proprio la solidità attoriale di Servillo a fare da collante, ben controbilanciato dalla profondità espressiva dell’esotica Yang Mi. Una dicotomia che conferisce al film un’aura quasi surreale ma al tempo stesso un amaro realismo.

7.5

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