Recensione Goltzius and the Pelican Company

Peter Greenaway narra l'eccentrica vita e opera dell'artista cinquecentesco Hendrik Goltzius

Recensione Goltzius and the Pelican Company
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Fin dai suoi esordi, la produzione di Peter Greenaway è stata caratterizzata da un connubio inestricabile fra cinema, teatro e pittura: la peculiare cifra stilistica del regista gallese, del resto, è sempre stata la concezione e la costruzione dell’immagine filmica come una galleria di tableaux vivants, in cui i canoni dell’arte figurativa (spesso fatta oggetto di espliciti omaggi) si intrecciassero con le potenzialità del mezzo cinematografico, sfruttate però in maniera del tutto atipica ed originale e con frequenti effetti di straniamento. Se tale approccio ha dato vita, in passato, ad opere di innegabile fascino e di notevole potenza espressiva (due su tutte: I misteri del giardino di Compton House, del 1982, e Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante, del 1989), a partire dagli Anni ’90 il cinema di Greenaway ha lasciato uno spazio sempre più ampio alla propria dimensione di artificiosità, muovendosi in direzione di uno sperimentalismo in chiave estetizzante che, tuttavia, non ha generato frutti pienamente convincenti.

The sweetest taboo

Il suddetto sperimentalismo, declinato il più delle volte in un’ottica di metateatro, se mostrava la tendenza ad una sorta di “cristallizzazione” già in film pregevoli quali L’ultima tempesta e Il bambino di Mâcon, ha causato ben presto nel cinema di Greenaway una china discendente, palese già in titoli come I racconti del cuscino e 8 donne e ½, dalla quale il regista gallese non sembra ancora essere riuscito a risollevarsi. E negli ultimi anni, l’autore di Newport ha mostrato di voler approfondire ulteriormente tale elemento di compenetrazione fra cinema e pittura con una trilogia su tre celebri pittori olandesi: un progetto iniziato nel 2007 con Nightwatching, dedicato a Rembrandt e al suo olio su tela dal titolo Ronda di notte, e proseguito nel 2012 con Goltzius and the Pelican Company, che pone al centro del racconto l’artista Hendrik Goltzius, fra i primi e più noti incisori di stampe erotiche nell’Europa di fine Cinquecento. Goltzius (Ramsey Nasr), al cospetto del Mangravio di Alsazia (F. Murray Abraham, l’indimenticabile Salieri di Amadeus), richiede i finanziamenti necessari alla pubblicazione di un volume di incisioni raffiguranti le pagine più scabrose dell’Antico Testamento. Ma il Mangravio impone una condicio sine qua non al proprio atto di mecenatismo: la compagnia di Goltzius, la Pelican Company, dovrà mettere in scena, a beneficio della sua corte, sei episodi biblici basati su altrettanti tabù sessuali: la fornicazione, l’incesto, l’adulterio, la pederastia, la prostituzione ed infine la necrofilia, in un delirante viaggio nei recessi più oscuri ed insidiosi del desiderio. Un viaggio che prende inizio dal libro della Genesi, con Adamo ed Eva impegnati a soddisfare la curiosità voyeruistica del pubblico con i loro forsennati accoppiamenti, e culmina in una cruda rivisitazione della storia di Salomé e Giovanni Battista, passando nel frattempo per le vicende di Lot e le sue figlie, di Davide e Betsabea, di Putifarre e sua moglie e di Sansone e Dalila.

Eros e Thanatos

Una celebrazione della lussuria, esplorata nelle più varie forme di trasgressione di perversione, che per Peter Greenaway costituisce innanzitutto l’opportunità ideale per continuare a tessere quel fil rouge che, più o meno da trent’anni, il regista gallese porta avanti attraverso i propri film: la rappresentazione della dicotomia fra Eros e Thanatos, due ingredienti complementari e ineludibili della medesima pulsione. Un asse portante della filmografia di Greenaway, riproposto ancora una volta in un’opera che persiste nell’intento di decostruire tutte le convenzioni narrative del cinema tradizionale, adottando un linguaggio - in primo luogo visivo - di barocca opulenza, in grado di sprigionare innumerevoli suggestioni, ma senza mai risultare davvero provocatorio (a dispetto della materia narrativa). Se in Salò o le 120 giornate di Sodoma Pier Paolo Pasolini coniugava la natura più ‘bestiale’ dell’Eros con l’apoteosi di un orrore esibito nei suoi aspetti più sgradevoli e repellenti, Greenaway sceglie la strada opposta: un’estetizzazione radicale tanto del sesso, quanto degli atti di sangue più efferati, che comprendono mutilazioni e omicidi. All’interno della pellicola è rintracciabile anche un altro tema chiave della poetica di Greenaway, ovvero l’arte come oggetto di una mercificazione destinata a trasformarsi in un crudele gioco di potere fra artisti e committenti (si ricordi, a tal proposito, il succitato I misteri del giardino di Compton House). Eppure, come a Greenaway accade puntualmente da quasi due decenni, Goltzius and the Pelican Company non riesce a sottrarsi a quel manierismo esasperato, a quel parossistico senso di autocompiacimento, che impedisce lo “scarto” da una formula ormai consolidata, soffocando ogni possibilità di sorpresa o di autentico, viscerale coinvolgimento.

Goltzius and the Pelican Company Ennesimo tentativo di ibridazione tra differenti linguaggi e forme d’arte, Goltzius and the Pelican Company, secondo capitolo di un’ideale trilogia su alcuni fra i più celebri pittori olandesi, si pone come un nuovo tassello nell’itinerario del regista Peter Greenaway, volto ad esplorare il binomio Eros e Thanatos secondo i codici di un’estetizzazione barocca che, tuttavia, finisce per cristallizzarsi in una messa in scena ostinatamente manierata, magari provocante ma mai realmente provocatoria.

6.5

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