Si parla di monarchi, in Godzilla II - King of the Monsters. Il titolo è stato dato al Predatore Alpha alla fine del precedente capitolo del Monster Universe, dai soliti media che amano dare un nome a tutto perché odiano vivere nell'ignoranza. Identificare è conoscere, anche se spesso è sintomo di superficialità, infatti Godzilla non è ancora il Re dei Mostri ma uno dei possibili aspiranti al Trono, come poi ci spiega benissimo questo sequel diretto da Michael Dougherty (Krampus), che prende piede a distanza di cinque anni esatti dagli eventi di San Francisco.
I M.U.T.O. non ci sono più e Godzilla è tornato nelle profondità marine, ma il mondo è nel caos. I governi insistono affinché quelli che chiamano Titani vengano uccisi prima di un loro possibile risveglio, ma la MONARCH si oppone fermamente e li tiene al sicuro e controllati nei loro Avamposti sparsi per il globo. Un po' come per Jurassic World: Il regno distrutto, anche nel film scritto dallo stesso Dougherty con Max Borenstein si parla di ambientalismo e preservazione della vita nella sua generalità, senza tirare in mezzo entropia o Teoria del Caos, dove i Titani vengono protetti dalla MONARCH in quanto esemplari rari e non obbligatoriamente pericolosi, auspicando un po' utopicamente a una convivenza futura pacifica e di mutuo benessere.
Questi mostri scoperti sono in tutto diciassette, dalle Americhe all'oriente, ma l'unico libero è Godzilla, che ha involontariamente difeso l'umanità distruggendo i suoi avversarsi come un animale difende il suo territorio: natura, istinto predatorio, preservazione. Qualcosa sembra però spingere adesso il Titano fuori dal suo recinto, questo dopo che uno degli Avamposti della MONARCH è stato preso d'assalto da un gruppo di eco-terroristi convinti della doverosa estinzione dell'uomo, il virus più grande che la Terra abbia mai conosciuto. Si mette così in moto qualcosa di mai visto prima: una guerra selvaggia tra Dei, dove il mondo intero è il campo di battaglia e la sopravvivenza e il dominio gli unici grandi obiettivi.
Vivere è combattere
King of the Monsters non ha nulla a che fare con il Godzilla del 2014, né per ambizioni né per portata. Il film di Gareth Edwards restava prepotentemente chiuso nella visione umana della distruzione, mostrandoci il punto di vista del piccolo sul grande. Sicuramente interessante, specie per il taglio stilistico scelto da un ottimo mestierante come Edwards, ma ridotto, spesso confuso, poco esaustivo. Di tanto in tanto, un zampa di Godzilla; con un po' di fortuna, un'inquadratura totale prima che ci venisse sottratta la visione mastodontica del Predatore Alpha. La costruzione era questa: presentarci il personaggio lentamente, né come cattivo né come salvatore. Di certo la sua stazza non poteva tenere conto degli insignificanti umani, moscerini in confronto alle sue esigenze, che nel caso specifico erano quelle della caccia ai M.U.T.O, così da salvaguardare il suo territorio.
Poi lo scontro finale due contro uno, la distruzione totale di San Francisco, la vittoria di Godzilla e il ritorno agli abissi. Non propriamente entusiasmante e ricco di chissà quale scrittura ma funzionale alla visione del regista, che voleva declinare il mitico personaggio giapponese creato da Honda in una dimensione più umana, renderlo "l'emozione" di cui parlava Jun Fukuda, non per forza solo ira. La rappresentazione occidentale di Godzilla è infatti slegata - in questo nuovo universo - da quella primaria orientale, dove l'essere, il Kaiju, era e resta tutt'ora la personificazione della paura del nucleare e dell'incoscienza dell'uomo.

Nella rilettura americana, Godzilla è il supremo predatore della Terra, un sopravvissuto di un mondo ormai dimenticato adesso pronto a tornare in superficie per difendere i suoi interessi, non per attaccare l'uomo, che è comunque la causa scatenante dei suoi problemi. In King of the Monsters, dunque, Godzilla si trova costretto suo malgrado a scendere in campo per combattere, che nel contesto specifico significa continuare a vivere. La minaccia alla sua esistenza è infatti reale e non ammette sopravvissuti, specie perché il Re Lucertola deve vedersela con "colui che è molti", King Ghidorah, il mostro zero.
Proporzioni esagerate
Impostato il setting e con la trama ormai avviata, Godzilla II - King of the Monsters si rivela il più feroce, enorme e cataclismatico blockbuster di natura monster e disaster movie di sempre. Il secondo genere è ovviamente consequenziale al primo, ma le proporzioni della devastazione non conoscono davvero confini, così come il risvegliarsi dei Kaiju e la loro furia. Dicevamo della differenza con Godzilla, che c'è ed è evidente, eppure Dougherty non perde interesse per il punto di vista umano e gli scontri interni alla razza, che continua a farsi la guerra nonostante le loro città vengano calpestate con disinteresse dai Titani. Avere un cast nettamente più corale che agisce quasi costantemente in gruppo (a seconda dello schieramento) aiuta a diminuire la pedanteria un po' stantia di alcuni dialoghi, dando invece efficacia e importanza all'azione e annullando di fatto molte perdite di tempo. Se si parla, lo si fa per discutere di un'evoluzione narrativa funzionale, pure con i suoi limiti e sempre parallela o secondaria al risveglio e scontro tra i Titani.
Questa volta i protagonisti sono infatti trascinati con più decisione e più attivamente all'interno del conflitto tra Godzilla e Ghidorah, i due esseri visti nella loro complessità animalesca come condottieri di eserciti moralmente agli antipodi: c'è chi lotta per la preservazione e chi invece per il dominio e l'annichilimento totale.
Sono entrambi eredità di un passato remoto, nemesi giurate, e gli altri Kaiju, da Mothra a Rodan, fedeli sudditi o banderuole che parteggiano per l'una o l'altra parte. È uno scontro fra regni che non conosce democrazia ma solo furore selvaggio, dipinto sul grande schermo con un valore cinematografico esagerato, che pure sfrutta spesso la notte, la pioggia e le condizioni atmosferiche avverse per coprire un dispendio tanto eccessivo di VFX e dare un taglio artistico cupo e rarefatto al sequel.

Funziona magnificamente, anzi, entrando direttamente all'interno di queste varie strutture particellari e climatiche, il film cambia radicalmente aspetto da un passaggio all'altro, dall'Antartide a Washington, fino in Messico.
Non dobbiamo certo essere noi a spiegarvi quali siano i poteri di Ghidorah, ma vederlo viaggiare nella sua ciclopica grandezza all'interno di un tempesta di saette è una visione idilliaca di apocalisse imminente. C'è anche il battito di Ali di Rodan e la sua agilità a lasciare impressionati - in particolar modo in uno scontro ben preciso -, mentre la sontuosa e incantevole bellezza di Mothra illumina ogni cosa, creando una delle immagini probabilmente più potenti e divine dell'intero franchise.
Come in un Goya
Se Francisco Goya dipingeva la brutalità dell'uomo, Dougherty con King of the Monsters dipinge la brutalità della natura, che si fa carne e sangue, impeto e minaccia attraverso i suoi Titani. Le tinte della fotografia, scelta sapientemente dal regista insieme a Lawrence Sher, fluttuano in un cromatismo virtuoso che va dal blu al giallo, comunque sempre macchiate da ombre che ne diminuiscono la saturazione, spegnendone efficacemente la vita, tranne quando si tratta dei raggi di Godzilla o Ghidorah. Luce e regia graziano l'intero progetto, sapendo quando e dove costruire impalcature stilistiche misurate e quando invece esagerare e creare uno spettacolo visivo solenne, che sembra filtrato dall'occhio di George Miller tanto cupo, ricercato e complesso appare.
Si avverte la potenza bestiale delle creature anche soltanto mediante singole inquadrature (eccezionale il risveglio di Ghidorah), mentre i loro scontri sono messi perfettamente a fuoco sia quando li vedono protagonisti, sia quando sono sullo sfondo, secondi ai personaggi umani che sbracciano, escogitano e tentano di restare in vita in un simile pandemonio.
Oltre all'esuberante e implacabile forza demolitrice dei Titani, King of the Monsters sa comunque mostrarne anche i sentimenti, toccando vette poetiche brevi e inaspettate in più di un'occasione, raccontando con le immagini l'amore, la paura e la complessità emotiva che danno forma e sostanza a queste creature, spesso caratterialmente più malleabili e plastiche dell'uomo, fermo invece nella sua cecità e nelle sue corrotte ambizioni.

Una sequenza in particolare con Serizawa richiama alla mente il primissimo Godzilla del '54, riscrivendone però profondamente il DNA, mutandone senso e struttura in una delle scene più belle del film, che trasforma il sequel di Dougherty in un film più stratificato di quanto sembri (almeno in diverse sue arguzie concettuali), significativamente contemporaneo e lucido nel suo obiettivo. Poi quel frame finale carico di estasi, terrore, riverenza, di vita e di morte, come se a dipingerne la fine fosse sempre stato Goya, traslando il suo Colosso dalla tela al cinema, da umano a mostro, concentrando gli orrori della guerra e dell'uomo in una sola immagine, grandiosa e totale. Lunga vita al Re!