Flee Recensione: lo struggente documentario animato candidato agli Oscar

Dall'Afghanistan alla Danimarca, dalla cultura mediorientale alla sua omosessualità: Amin racconta il proprio percorso in Flee.

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Come far rivivere i ricordi. Spesso i documentari si avvalgono di materiali di archivio, di video o fotografie che possano attestare quanto avvenuto mescolando le parole a fatti analogici o digitali che sappiano restituire quel particolare spaccato. Ma come fare quando del passato non è rimasto nulla? Quando è solo il racconto a poter venir espresso davanti ad una macchina da presa senza aver nessun supporto visivo con cui poter metterlo a fuoco? L'arte viene sempre in aiuto, ricostruendo anche quei ricordi che fanno più male, trovando la maniera di riportarli con forza, durezza e un misto di dolcezza.

È il caso del documentario Flee di Jonas Poher Rasmussen, la storia vera di un rifugiato gay afgano che ha già fatto la storia degli Academy Awards venendo candidato per la prima volta in tre categorie solitamente distanti e invece confluite nell'opera. La pellicola è in corsa per il Miglior film straniero, il Miglior film d'animazione e anche per il Miglior documentario, esprimendo attraverso le nomine i punti focali della vicenda di Amin che dall'Afghanistan alla Danimarca ha visto la sua vita cambiare e prendere continue, inaspettate, paurose direzioni - vi siete persi il resto dei candidati? Ecco le nomination agli Oscar 2022 e la polemica dei registi contro l'esclusione di 8 categorie agli Oscar 2022.

Il viaggio verso "casa"

Una scelta, quella dell'animazione per riportare gli avvenimenti vissuti dall'uomo, che non ammorbidisce il carico emotivo che Flee restituisce, ponendosi anzi con tutta la realtà che una finzione come quella disegnata può al contrario restituire, dando forma ad angosce provate e memorie che si preferirebbero dimenticate e vedendole fluttuare con scioltezza sullo schermo.

Amin narra in prima persona le due versioni del proprio percorso, quello con cui ha dovuto da sempre mentire per poter rimanere al sicuro e quello che, in verità, fa parte della sua storia personale. Una prova coraggiosa quella del protagonista che, fidandosi dell'accortezza e della vicinanza del migliore amico Rasmussen, ha trovato la maniera di liberarsi da quei pesi che rimarranno per sempre sulla propria anima, ma che potranno finalmente abbracciare una verità rimasta per troppi anni taciuta, permettendogli forse di poter voltare davvero pagina. È infatti sul concetto di casa che Flee apre la propria riflessione. Su cosa significa in quanto termine generale, su cosa rappresenta per ogni singola persona, su come la sua presenza faccia sentire al sicuro qualcuno mentre la sua assenza ne determina drasticamente i timori e le insicurezze. Casa è qualcosa che per Amin è stato sempre lontano. Lo era già in Afghanistan quando i soldati tentavano di sequestrare giovani ragazzi per costringerli alla guerra. Lo era quando si è trovato in Russia, chiuso per giorni interi tra il perimetro di quattro pareti eppure così distante dal calore del nido. E lo è stato per molto tempo in Danimarca, luogo d'accoglienza per un ragazzo al tempo sperduto diventato uomo accademico e fidanzato di Kasper, in una rincorsa costante verso quel senso di protezione e sicurezza che per Amin sarà sempre difficile riconoscere e ancor più credere e affidarsi.

Un documentario che accende l'empatia

Nell'osservazione di un protagonista che è centro dell'intero processo creativo e di scrittura, il documentario non utilizza la sua condizione di profugo e, poi, di rifugiato o quella di giovane omosessuale in una cultura stringente come quella mediorientale per guardare in prospettiva i macro-temi dell'opera.

Qualsiasi declinazione Flee prenda è rivolta solo e solamente ad Amin, alle vicende su di lui incentrate, facendosi sicuramente specchio di questioni più grandi e globali, ma che ci colpiscono soprattutto quando vediamo e sentiamo qualcuno in prima persona proporle mentre mette nelle nostre mani il suo accaduto. Entrando in un'empatia intima pur riportabile ad avvenimenti universali, avvolti dalla percezione di tutela che Flee produce mentre ci accompagna per territori indegni e pericolosi, con l'occhio di Jonas Poher Rasmussen scrutiamo Amin e ne avvertiamo tutto il dolore. Quello che ci auguriamo di non dover mai provare e che, per poterne comprendere una minima impercettibile parte, possiamo e dobbiamo rivivere attraverso lo schermo.

Flee Facendo già la storia degli Oscar venendo candidato in tre categorie mai unite da un unico titolo (Miglior film straniero, Miglior documentario e Miglior film di animazione), Flee è il racconto in prima persona di Amin inquadrato dall'amico regista Jonas Poher Rasmussen. Un titolo che riporta attraverso la forma animata il suo percorso che lo ha condotto dall’Afghanistan alla Danimarca, nonché una riflessione sulla propria omosessualità nell'ottica del paese di appartenenza. Un'opera che crea una forte empatia con l'uomo e ragiona su cosa significa per le persone il concetto di "casa", mostrando quanto sia difficile sentirsi al sicuro quando non se ne ha mai avuta una.

7.5

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