El Conde Recensione: la dark comedy Netflix di Pablo Larraín non convince

A pochissimi giorni dal premio ricevuto al Festival di Venezia, il nuovo film del regista cileno sbarca su Netflix

El Conde Recensione: la dark comedy Netflix di Pablo Larraín non convince
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Marx sosteneva che la storia si ripete sempre due volte: la prima come tragedia, la seconda come farsa. Deve pensarla così, probabilmente, anche Pablo Larraín, autore di El Conde, opera grottesca e sui generis, premiata per la sceneggiatura all'ultima Mostra del Cinema di Venezia (qui tutti i vincitori di Venezia 2023) e tra i film in uscita a settembre 2023 su Netflix. Il regista cileno, specializzatosi negli ultimi anni in biopic non convenzionali, intimi e analitici (Neruda, Jackie e Spencer), torna alla sua di storia, quella del suo paese, a cinquant'anni dal golpe del 1973. Adesso però, e per la prima volta in un'opera audiovisiva di finzione, è Pinochet ad essere protagonista.

La storia fittizia è quella di Claude Pinoche, vampiro francese che negli ultimi 250 anni ha combattuto in tutto il mondo in favore dell'oppressione e dell'ingiustizia. Stabilitosi in Cile, egli instaurò una dittatura sotto il nome di Augusto Pinochet. Volendo evitare di pagare per crimini commessi, nel 2006 finse la sua morte per ritirarsi in una località isolata insieme alla moglie al fedelissimo maggiordomo. Ma con tempo, il peso degli anni inizia a farsi sentire e il desiderio di metter fine ai propri giorni prende il sopravvento, portandolo a rifiutare i pasti a base di sangue e cuori che l'avevano, fino a quel momento, tenuto a lungo in vita. Quando una serie di cruenti omicidi a Santiago porteranno a pensare che Pinochet abbia ripreso ad uccidere, i suoi cinque figli cercheranno un confronto, desiderosi di metter mano sull'eredità di un padre che però non passa mai a miglior vita. A complicare la situazione, l'arrivo in casa di un'affascinante suora, convocata per indagare sulle finanze del "conte" e provare ad esorcizzarlo.

Il confronto con il mostro

Il cinema di Larraín, o almeno quello con il quale ha posto le basi per un linguaggio capace di delineare le delicate complessità di un periodo storico, ha spesso affrontato la vita dei cileni e del Cile sotto il tragico regime (si pensi Post Mortem o a Tony Manero, fino a No - I giorni dell'arcobaleno, tutte opere che mettevano in scena le conseguenze di quel ventennio sulle menti e sui corpi dei cileni). Pinochet è sempre stato presente, aleggiando attorno alle vicende come una nube tossica che infetta l'aria di un intero paese, rendendolo aggressivo, frustrato e malato, senza però esser mai inquadrato.

Questa volta invece Larraín affronta direttamente una delle figure più crudeli della seconda metà del secolo scorso, dopo averlo lasciato sempre fuoricampo. E per farlo, coadiuvato alla sceneggiatura da Guillermo Calderon, cambia tutto, a partire dalla geniale ed esilarante premessa: Augusto Pinochet non è mai morto e per di più è sempre stato un vampiro. Basterebbe fermarsi a questo spunto per voler già bene a El Conde. E infatti c'è quasi solo questo.

Con il suo ultimo lavoro, il regista sudamericano mette il dittatore non al centro di un discorso torbido e posato, come visto in passato, ma rimescola le carte in tavola, spingendosi per la prima volta nel territorio della commedia nera dai toni horror. E la poca dimestichezza con tali toni diventa, col passare dei minuti, sempre più evidente: è certo il film più divertente della sua incredibile carriera ma sembra più un piacevolissimo divertissement personale. La sensazione è che Larraín si sia divertito tantissimo a scriverlo e dirigerlo, più di quanto non possa fare lo spettatore dopo la prima mezz'ora di visione: è tutto lì, in quel primo atto, El Conde, in quella matta idea iniziale e in una presentazione dei personaggi e del setting narrativo di partenza ottimi.

Quando i conti non tornano

Due elementi hanno sempre connotato il cinema dell'autore cileno: la capacità di sondare il soggetto, senza mai essere banale e grossolano, andando a fondo con precisione, facendosi strada tra le sfumature ma non provando far trasparire un'idea, e un impianto visivo di eccezionale fattura.

Se il primo degli elementi qui latita e quando è chiamato in causa barcolla, il secondo non tradisce totalmente. El Conde affascina soprattutto per la scelta di un buon bianco e nero, curato da Ed Lachman, e per una messa in scena compiaciuta ma curata al dettaglio - che sembra strizzare l'occhio, tra i tanti esempi, a classici del genere come Nosferatu di Murnau o Vampyr di Dreyer (i vertiginosi primi piani sulla suora ricordano anche La Passione di Giovanna d'Arco). Sono suggestioni espressive notevoli (e non è poco) che però restano lì, che affascinano ma che rimangono su un piano superficiale. L'ultima fatica dell'autore di opere taglienti come Il Club ha, in teoria, tutto in regola per essere un successo, dal gusto estetico fino alla ricerca della battuta sagace. Ciò che non funziona è l'insieme, il senso di inconcludenza che lascia quando tutti questi elementi si incontrano ma non si scontrano, quando dopo il geniale inizio ci si aspetta la partenza di qualcosa che però non arriverà (il finale, con la rivelazione della voce narrante, proverà a sistemare, ribadendo però quanto siano buone le idee ma inefficace la messa in atto di esse), perdendo l'occasione per parlare di potere, di persistenza nella memoria - facile, facilissimo, pensare che l'allegoria del vampiro e del mostro sia non solo simbolo di una forza che succhia linfa vitale dagli altri per diventare più forte ma soprattutto emblema di un'immortalità data dall'impunità di Pinochet - delle implicazioni politiche con il vecchio continente o, infine, della famiglia.

El Conde non va molto oltre il gioco iniziale, proseguendo la sua strada senza guizzi, banalizzando semplicisticamente il male, rendendolo innocuo ma proprio per questo diminuendo il mordente di un'opera esile e riuscita solo in parte, pregna di una verve viva ma mai davvero incisiva, più vicina alla comicità surreale e grottesca di Wes Anderson che alla satira politica. Che il contributo di Netflix abbia ancora una volta giocato un ruolo chiave per l'infruttuoso risultato finale?

El Conde L’ultima fatica di Pablo Larraín parte da una premessa geniale e affronta il suo incipit spiazzando e convincendo pienamente. Peccato che a lungo andare El Conde inizi ad attorcigliarsi su se stesso, vittima di un plot scarno e privo di efficacia a lungo termine, che gode sì dell’ottima idea iniziale ma che resta fermo, ancorato saldamente ad essa, finendo l'ossigeno subito. Con qualche guizzo comico sporadico e mai incisivo, l’ultimo film del regista cileno è certamente il suo lavoro più divertente ma anche uno dei meno riusciti, incapace di raccontare e delineare, come già fatto magistralmente in passato, personalità complesse e contesti sociali in bilico. Resta l'amara sensazione che le quasi due ore di durata siano un po’ troppe per un titolo che avrebbe meritato un minutaggio nettamente inferiore, vicino al mediometraggio. Nota di merito all’impianto visivo, ben curato ma parecchio compiaciuto, affascinante nell’intento citazionista e suggestivo, ma poco, e forse per niente, parte del discorso generale.

6

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