Recensione Doomsday

Quando il virus è postmoderno.

Recensione Doomsday
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Chi non muore si rivede

L'avevamo lasciato con la piacevole sorpresa a nome The Descent, un horror claustrofobico ben congegnato e diretto nonostante il cast privo di particolari stelle del firmamento cinematografico. Film decisamente spietato che non lasciava scampo alla psiche dello spettatore permettendosi persino il lusso di violare nel finale una delle regole ferree del mainstream hollywoodiano: quell'happy-ending risolutore volto a rassicurare il pubblico con il ripristino, la risoluzione dell'equilibrio iniziale attraverso l'eliminazione della minaccia all'ordine costituito. Parliamo naturalmente di Neil Marshall, regista inglese di questo Doomsday che con il precedente lavoro ha in comune una protagonista femminile in un contesto diegetico a lei ostile. In fin dei conti, astraendo il tutto su di un piano logico-strutturale di carattere narrativo, l'infernale gita speleologica da week-end estremo del gruppo di amiche 'girl-power' di Discesa nelle Tenebre risulta concettualmente sovrapponibile alle peripezie della bella ed energica Rhona Mitra nella Scozia post-apocalittica e neo-punk della pellicola oggetto d'analisi. Avevano ragione allora i francesi dei Cahiers a parlare di 'politica degli autori' nei lontani anni '50 e '60...

Breve sinossi introduttiva

Nella Scozia di uno stranamente attuale 2008 fa la sua comparsa un terribile virus denominato Reaper. E' mostruosamente efficace e dopo aver invaso in toto il Regno Unito minaccia di far scomparire l'umanità a suon di vittime. Sembra privo di vaccino e per questo inarrestabile. Con la medicina impotente è la diplomazia internazionale a prendere le redini della salvaguardia terrestre. Tutta la regione nord-anglosassone viene così isolata per mezzo di un vero e proprio muro di cinta invalicabile controllato a vista. Chi da 'portatore' prova ad oltrepassarlo, viene bersagliato a vista o fatto fuori senza mezze misure. La cinica 'cura' sembra funzionare fin quando circa 30 anni dopo (più precisamente nel 2035) il Reaper torna a manifestarsi in alcune parti del mondo. Questa volta urge davvero un rimedio anti-virale ed è per questo che viene mandato nella penisola nord-britannica, ormai completamente in preda all'anarchia, un team di soldati capitanato dal comandante-donna Eden Sinclair. Dovranno trovare una cura/portatore sano e tornare indietro vivi...

L'arte del sublime ridicolo


Dopo svariati minuti di visione cinematografica l'occhio esperto non faticherà molto a riconoscere tra un fotogramma e l'altro della pellicola alcune squallide e tamarrissime trovate iconico-scenografiche ai limiti del pacchiano, l'abuso di stilemi splatter-sensazionalistici cari all'exploitation e l'incondizionato riciclaggio di moduli filmici tra loro 'pasticciati'. Si tratta di 'spie' pronte a rivelare, a partire dal prologo, l'ascendenza 'trash' di Doomsday. Nel parlare del nuovo lavoro di Neil Marshall utilizzeremo però il termine in un'accezione leggermente differente da quella solitamente volta all'esaltazione ironica di contenuti artistico-culturali di basso profilo. Cercheremo infatti di porre tale categoria concettuale a fondamento di un'estetica di carattere postmoderno definita 'dell'ibrido' tentando di rivalutarne il significato. Che è proprio quello che tale Giorno del Giudizio fa, innalzando verso le vette dell'estetica più colta e raffinata materiale spesso risibile se non addirittura 'rubato' a destra e manca attingendo a piene mani da circa un secolo di immaginario in celluloide. Doomsday incarna infatti alla lettera certa pratica cara alla poetica del 'resto culturale', ossia quell'impulso creativo che guarda al passato come magazzino di scorta cui attingere a più non posso prendendo a prestito forme e contenuti (spesso di genere) in modo da miscelarli assieme con il fine di dare alla luce un mosaico inedito di suoni e colori meta-filmici. Questo magazzino di scorta dell'erudizione cinematografica, scendendo nello specifico, non viene semplicemente preso come fonte di ispirazione o citato in modo 'colto', ma considerato alla stregua di bidone della spazzatura colmo e maleodorante cui approvvigionarsi vitalmente come farebbe un barbone. Il 'trash' è qui insomma da intendersi come una serie di 'avanzi' in celluloide espiantati e ripiantati più volte in un nuovo indefinito organismo ricorrendo a massicce dosi di chirurgia 'hip-pop'. Il risultato, parafrasando in parte il titolo di un saggio di Slavoj Zizek dedicato a Lost Highway di Lynch, è un frankenstein sublime ed allo stesso tempo ridicolamente vuoto per non dire 'assente'. E' in sostanza un mostro privo d'identità. Ora, naturalmente e secondo il parere di chi scrive, Neil Marshall è filmmaker fin troppo abile e preparato per sfornare un prodotto così vistosamente 'ingenuo'. Non può aver in pratica partorito a sua insaputa un tale e clamoroso 'pastiche'. Non resta dunque che considerare questa forma estetica come semplicemente voluta. Cosa significa? Che Doomsday è stato pensato sin dall'origine quale prodotto 'postmoderno': un cinema-mosaico fatto di 'scarti', eccessivo, barocco ed allo stesso tempo 'inconcludente' nella sua mancanza di personalità. Chi ha stroncato il film sulla base di tali argomentazioni ha semplicemente sbagliato bersaglio, commettendo un grave errore interpretativo. 

Il giorno del pasticcio


Ragionando in termini puramente prestazionali Doomsday centra infatti appieno l'obiettivo che si era prefisso. E lo fa grazie ad una mente creativa estremamente abile e preparata. Inteso come gioco combinatorio di carattere snob/intellettuale infatti, il film di Marshall è quanto di meglio visto negli ultimi tempi. Capace di passare con disinvoltura dallo splatter/gore più viscerale al post-apocalittico in stile Interceptor/Mad Max, non disdegnando il cinema cappa e spada e certo fantastico medievale da fiaba. Rhona Mitra, eroina protagonista delle vicende, è fin troppo simile nell'abbigliamento, negli sguardi e nel trucco, alla Kate Beckinsale di Underworld. Fa inoltre proprie alcune movenze della Charlize Theron di Aeon Flux ed ha lo stesso duro e spietato carattere di Milla Jovovich intravisto nella trilogia cinematografica dedicata a Resident Evil. Ha poi un occhio fuori uso proprio come lo Jena/Snake Plissken di 1997: Fuga da New York. Carpenter è tra l'altro citato anche nella colonna sonora per mezzo di motivetti elettronici che sanno di tributo in suo onore. Durano poco perché subito dopo, magari, ti ritrovi l'orchestra sinfonica pronta in tutta la sua magniloquenza a sottolineare le scene più epicamente action di Doomsday. Ce ne sono a bizzeffe ed in molti casi sembra di assistere a scontri armati tra gli umani e le locuste di Gears of War che a sua volta li rielaborava da Starship Troopers. I caschi dei soldati paiono simili a quelli presenti in Halo 3. Li usano, qui, per evitare spiacevoli contatti epidermici con il Reaper. C'è da dire che il tema viral-pandemico non è una novità essendo presente in molteplici pellicole tra cui 28 Giorni (e Settimane) Dopo. Queste però lo riprendevano da un certo signor Romero i cui zombie-movie, soprattutto il primo, avevano a loro volta a che fare con un tale scrittore di nome Richard Matheson. Doomsday però è molto meglio di I Am Legend. Anche per il solo fatto di far apparire un uccello inquadrato simile al gufo di Blade Runner. Neil Marshall gioca in aggiunta con illuminazione e messa in scena allo stesso modo del Ridley Scott anni '80 innamorato dell'estetica da videoclip. I fasci di luce sono infatti gradevoli e curatissimi. Così come i movimenti di macchina, i raccordi scalari e di sguardo tra le inquadrature: tutti di elevata fattura. Riciclati chissà dove ma tendono al virtuoso. Riprendono spesso merda in maniera poetica. Un po' come fa Tarantino. Per la serie: quando il sacro incontra il profano e non v'è più distinzione tra cultura 'alta' e 'bassa'. A morte le etichette e viva l'indistinto. Viva il caos e l'ambiguità. Viva il postmoderno. Viva il [trash]. Fine dei giochi e complimenti all'autore.

Doomsday Voto in controtendenza per un film che è stato vituperato dalla critica di tutto il pianeta, ma che, in realtà, è volto a giustificare uno dei più riusciti esempi di cinema postmoderno. Lasciate da parte i contenuti narrativi e godetevi il collage. Un collage, per giunta, dal ritmo irresistibile.

8

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