Recensione DOA: Dead or Alive

Il live action scult tratto dal noto picchiaduro

Recensione DOA: Dead or Alive
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Sulla scia del successo del famoso picchiaduro (giunto ad oggi al quinto capitolo) il regista Paul W.S. Anderson, non domo di aver banalizzato su grande schermo le saghe di Mortal Kombat e Resident Evil, decide di produrre nel 2005 (con l'uscita in sala l'anno successivo) il live action di DOA: Dead or Alive, impiegando un cospicuo budget di 21 milioni di dollari (a posteriori decisamente eccessivo, considerando l'esiguo guadagno worldwide di circa 6 milioni) e affidando la regia all'hongkonghese Corey Yuen (La leggenda del drago rosso, The Transporter). Un titolo demolito dalla critica e poco apprezzato dal pubblico, fan del videogame in primis, che su una trama sin troppo elementare (ma già la fonte originaria non brillava in questo versante) imbastisce decine di combattimenti che vedono protagoniste le sexy interpreti: da Devon Aoki (Sin City) e Jaime Pressly (My name is Earl) a Holly Vallance (Io vi troverò), Sarah Carter (Final destination 2) e Natassia Malthe (Elektra) l'occhio maschile non ha certo di che lamentarsi.

Vivo morto o XXX

In DOA: Dead or alive il ricco miliardario Donovan organizza un torneo di arti marziali su un'isola deserta, invitando alla competizione lottatori da ogni parte del globo. Tra di loro vi sono Kasumi (una principessa ninja accusata di tradimento per essere fuggita dal suo regno alla ricerca del fratello Hayate, scomparso l'anno precedente proprio nel torneo e ritenuto morto), la wrestler figlia d'arte Tina e la bionda Christie, un'astuta ed infallibile ladra. Dopo una lunga serie di controlli medici, le danze si aprono vedendo una sequela di scontri tra i partecipanti, mentre le tre ragazze (diventate amiche) comprendono come dietro le apparenze del torneo vi sia in realtà un losco piano messo in atto da Donovan e che Hayate potrebbe essere inaspettatamente ancora vivo...

Dead or alive

Non è un mistero se la scena forse più "memorabile" di DOA: Dead or alive rimanga quella della patinata partita di beach volley, ispirata non a caso allo spin-off videoludico Dead or Alive Xtreme Beach Volleyball. Difficile infatti salvare altri momenti in questo sconclusionato live action senza capo né coda, che ha richiesto addirittura la presenza di tre sceneggiatori per partorire una trama che procede per forzature narrative in serie, con risvolti improbabili e una parte finale da fiera del trash. Con una storia che potrebbe essere dunque riassunta in poche righe su un foglietto dei biscotti della fortuna, era impossibile far coesistere delle caratterizzazioni dei personaggi quanto meno decenti ed ecco che così il 90 % dei protagonisti maschili è un semplice ripiego mentre ognuna delle femme fatali ha a disposizione un "diverso" stile di combattimento per distinguersi dalle colleghe, oltre naturalmente a mostrare le proprie grazie in un filo-erotismo soltanto di facciata. E se qualche coreografia è di discreto livello (ma almeno questo da un regista ed ex-attore che ha lavorato con gente del calibro di Jet Li e Jackie Chan era lecito aspettarselo) il pasticciato uso di effetti speciali in alcune delle sequenze clou provoca ben più di una risata involontaria. In quest'apogeo del trash a dominare è indubbiamente il villain scult di Eric Roberts, in una performance talmente imbarazzante da esser forse il punto più basso di una carriera da fratello d'arte già non certo encomiabile.

DOA: Dead or Alive Corpi sexy ma patinati che si dan battaglia in spericolati combattimenti o in partite pruriginose di beach volley, all'interno di una trama totalmente inesistente. DOA: Dead or alive, complice anche il vg originale che di certo non brillava per storyline, è un film sconclusionato e imbarazzante, che riesce nella non semplice impresa di raggiungere i livelli qualitativi delle trasposizioni di Street Fighter e del secondo Mortal Kombat. E non basta un po' di pelle femminile in bella vista a giustificarne la visione.

3.5

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