Django Unchained, la recensione: Quentin Tarantino nel selvaggio west

L'omaggio tarantiniano allo Spaghetti western? La nostra recensione di Django Unchained.

Django Unchained, la recensione: Quentin Tarantino nel selvaggio west
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Sebbene, tramite Le iene (1992) e Pulp fiction (1994), avesse provveduto a rispolverare il gangster movie, contaminandolo con influenze provenienti dai noir nostrani firmati negli anni Settanta da Fernando Di Leo, e, per mezzo di Jackie Brown (1997), si sia cimentato in un vero e proprio omaggio al filone Blaxploitation, che uno dei generi preferiti dall'enfant terrible di Hollywood Quentin Tarantino fosse il western lo si era già capito da alcuni momenti e dal look generale di Kill Bill volume 2 (2004), secondo tassello di quel Kill Bill volume 1 (2003) che, invece, guardava in maniera principale ai film orientali di arti marziali.
A cinque anni dal nostalgico Grindhouse (2007) - realizzato in collaborazione con Robert Rodriguez - e a tre dal bellico Bastardi senza gloria (2009), quindi, non stupisce che sia tornato dietro la macchina da presa proprio per affrontare il genere caro alla polverosa terra texana, portando sullo schermo una vicenda di cui precisa: "All'origine vi era l'idea di raccontare di uno schiavo che diventa un cacciatore di taglie e parte alla ricerca dei sorveglianti di schiavi che si nascondono nelle piantagioni. All'inizio era solo quello che era, il sesto di sette schiavi che formavano una fila. Poi, ha iniziato a prendere sempre più forma, man mano che andavo avanti con la sceneggiatura".

Mezzogiorno di Foxx

Allora, si comincia negli Stati Uniti del 1858, due anni prima della Guerra Civile, e facciamo conoscenza con lo schiavo nero del titolo, interpretato dal premio Oscar Jamie"Ray"Foxx, la cui brutale storia con il suo ex padrone lo conduce faccia a faccia con il dottor King Schultz alias Christoph"Carnage"Waltz, cacciatore di taglie originario della Germania.
L'improvvisa e atipica collaborazione tra il nero e il bianco avviene perché il secondo, bisognoso dell'aiuto del primo per arrivare a riscuotere la taglia che pende sulle teste di due noti fratelli assassini, lo assolda con la promessa di donargli la libertà una volta portata a termine la missione; per poi trovarsi unito a lui nella ricerca di Broomhilda, con le fattezze della Kerry Washington di Miracolo a Sant'Anna (2008), moglie perduta tempo addietro, a causa della sua vendita come schiava.

Lo chiamavano Spaghetti western

Andando per ordine, però, non dobbiamo dimenticare che l'inizio di questo viaggio cinematografico destinato a condurre i due protagonisti da Calvin Candie, proprietario di una famigerata piantagione chiamata "Candyland" cui concede anima e corpo Leonardo DiCaprio, va ricercato in Django (1966) di Sergio Corbucci, in quanto lo stesso Tarantino spiega: "Ho sempre desiderato fare un film western. Amo il genere, ma, siccome ho sempre preferito gli ‘Spaghetti western', ho pensato che, se mai ne avessi fatto uno, sarebbe dovuto assomigliare a quelli di Sergio Corbucci".
Eppure, al di là del fatto che, dalla pellicola in questione, risultino recuperati sia la canzone eseguita da Rocky Roberts che il protagonista Franco Nero, qui relegato a un cameo-omaggio, l'aria che si respira sembra essere tutt'altro che quella del western all'italiana, di cui viene riciclata anche They call me Trinity di Annibale, colonna sonora di Lo chiamavano Trinità (1970).
Non a caso, ci si avvicina maggiormente all'imponenza scenografica della grande produzione americana e, in più di un'occasione, ai lavori di Sam Peckinpah, complici anche gli abbondanti spargimenti di emoglobina.
Non che ciò sia da considerare un difetto, in quanto, in ogni caso, ci troviamo dinanzi a un'operazione che, con ogni probabilità eccessivamente tirata per le lunghe (siamo oltre le due ore e quaranta minuti di durata), il regista confeziona con la consueta, invidiabile capacità tecnica e di racconto da schermo, senza dimenticare le sue immancabili dosi d'ironia.
L'impressione, però, è che Tarantino appaia ormai continuamente indeciso tra il continuare a manifestarsi quale irriducibile appassionato di b-movie ritrovatosi a fare cinema e il voler dimostrare a tutti i costi - soprattutto alla cosiddetta "critica colta" - di essere diventato un autore con la "a" maiuscola, di quelli in grado di giocare con i tempi di narrazione dilatati e dialoghi apparentemente interminabili.
Dialoghi che, come quello relativo al cranio di Old Ben in cui si cimenta il succitato interprete di Titanic (1997), valorizzano sicuramente le performance del lodevole cast, comprendente anche un magistrale Samuel L. Jackson nel ruolo dell'ambiguo Stephen; snaturando, però, proprio il concetto di base del film di genere di taglio popolare, che non prevede la presenza di grandi star, ma di caratteristi trasformabili in icone (possiamo citare Bud Spencer e Terence Hill o, in tempi recenti, il Danny Trejo di Machete).
Caratteristi che, dal James Remar de I guerrieri della notte (1979) al Michael Parks di Dal tramonto all'alba (1996), il regista sfrutta, invece, soltanto in maniera marginale, quasi posti a corredo "di serie b" di un'opera ambiziosa che, appunto, ricorda di appartenere alla exploitation su celluloide soltanto nei violenti momenti di violenza e nelle sparatorie dal gusto pop.

Django Unchained Un omaggio a Django (1966) di Sergio Corbucci che, però, lo è soltanto nel titolo, dimostrandosi quasi come una rilettura in salsa pop dei violenti western di Sam Peckinpah. Un viaggio con spargimento di cadaveri che azzarda addirittura l’allegoria politica non solo ponendo nei panni del pistolero americano un nero, ma accoppiandolo anche a un bianco di origini tedesche. Grande cast, abbondanti schizzi di sangue e tante icone dei b-movie in ruoli di contorno, ma il Quentin Tarantino popolare dei tempi de Le iene (1992) e del dittico Kill Bill (2003-2004) sembra essere sempre più lontano, in quanto maggiormente propenso a orientarsi verso un cinema da salottino borghese. Ne sono la testimonianza sia i dialoghi meno sboccati del solito che un avvertibile buonismo di fondo, capace di attenuare perfino le dosi di cattiveria a cui ci ha abituati il suo cinema. Intendiamoci, una prova riuscita su più fronti, ma decisamente inferiore alle precedenti e che non può assolutamente essere interpretata come un atto d’amore nei confronti dei molto più modesti Spaghetti western, tempestati di figuranti “di borgata” e stretti campi di ripresa atti a camuffarne in maniera efficace la povera natura.

7

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