Recensione Disastro a Hollywood

Una visione ironica sul mondo delle produzioni cinematografiche.

Recensione Disastro a Hollywood
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Everybody comes to Hollywood

Hollywood: meta idealizzata ed irraggiungibile di ogni amante dello spettacolo. Spesso il suo nome coincide con il concetto stesso di cinema commerciale, altre volte indossa la patinata veste dello star system, divenendo solo luminescenze e red carpet. Ma il grande tempio della produzione cinematografica americana è qualcosa in più (e a volte anche qualcosa in meno) di tutto ciò: dietro i lussuosi abiti e gli eventi, si nasconde un’industria frenetica, in movimento costante, soggetta a meccanismi simili a quelli di ogni altra grande fabbrica, se non forse più spietati. Il regista Barry Levinson cerca, con Disastro a Hollywood, di seguire le orme ideali di molti suoi predecessori, e raccontare i meccanismi produttivi che si nascondono dietro l’uscita in sala di un film.

What just happened?

Tutto comincia e finisce con un servizio fotografico che la rivista Vanity Fair decide di pubblicare sui 30 uomini più potenti di Hollywood. Tra di loro troviamo Ben (Robert De Niro), famoso tycoon cinematografico con alle spalle una brillante carriera piena di successi. Ma qualcosa nel servizio non sta andando come previsto, ed il film ci accompagna in un viaggio all’interno di una settimana tipo del produttore americano, precedente all’evento. Ben ha una vita intensa: due film da coordinare, due famiglie da gestire ed una miriade di piccoli problemi da risanare.
Da un lato abbiamo Fiercely: visionario e sanguinario film di un regista inglese (interpretato da Michael Wincott) ed interpretato dalla star Sean Penn (che interpreta se stesso). Affossata ai test screening, la pellicola deve trovare il modo di rinnovarsi per poter mantenere il proprio posto come film di apertura per il Festiva di Cannes, nonostante le obiezioni del drammatico regista e dell’ambizioso primo attore. Dall’altro lato i preparativi per un nuovo action movie incombono, ma la star del film non sembra voler collaborare. Ingaggiato per smuovere gli ormoni delle spettatrici, Bruce Willis si ostina a presentarsi sul set con un fisico decisamente poco atletico e quella che viene definita una “barba da talebano”. Il tutto si sistema su una precaria piattaforma familiare. Ben, infatti, deve districarsi tra due ex mogli, una figlia adolescente (Zoe, interpretata da Kristen Stewart) di cui non conosce praticamente nulla, e due bambini per cui deve trovare il tempo di fare il padre. Se per la prima moglie vale la regola del fingere che non esista, con la seconda, Kelly (Robin Wright Penn) le cose si complicano, dati i sentimenti che entrambi provano l’uno per l’altra, nonostante il divorzio avvenuto anni addietro.

La vita di un produttore cinematografico

Disastro a Hollywood è tratto dalle memorie di Art Linsons, noto produttore americano, che ha curato anche la sceneggiatura della versione cinematografica. Ci troviamo quindi innanzi ad una base narrativa piuttosto buona: raccontare i meccanismi della factory dal punto di vista dei producer, spesso visti come esseri insensibili e detentori di ogni potere decisionale su un film. E per esporli ci si affida a qualcuno che li ha vissuti in prima persona e che non ha paura di mettere in luce tutte le vere frenesie che ne regolano i dispositivi. Nonostante una costante visione cinica della vita di tali figure, il personaggio di Ben ci appare una vittima del sistema, schiacciato sotto una miriade di conversazioni al cellulare e in equilibrio precario, conteso dalla vita privata e quella professionale. Le sue menzogne ci sembrano sempre del tutto giustificate ed anche i pensieri più dissacranti avuti nel momento meno opportuno, appaiono perfettamente inseriti nel contesto e mai fuori luogo. Gli spunti narrativi sono molti e ben gestiti in modo da non trovarsi dinnanzi ad una sceneggiatura sempre uguale a se stessa, costruita attorno ad una stessa idea modificata più volte. Della normale attività di un produttore cinematografico ci vengono mostrati quasi tutti gli step: dall’approccio intimo che deve mantenere con il regista del proprio film (nonostante gli sia ripetuto di continuo che è solo un dispensatore di soldi, e quindi un film non è mai artisticamente suo), alla diplomazia che deve saper dimostrare con i capi degli Studios, dal sapersi imporre davanti ai capricci si una grande star che combatte per i propri principi morali, alle spiccate capacità di comprensione commerciale di una nuova proposta. Il tutto è magistralmente incastrato in modo da non annoiare, ma non apparire nemmeno troppo prolisso.
Pedine fondamentali di questo gioco delle parti, gli attori del film. Robert De Niro e le sue mille espressioni facciali riescono a regalare a Ben un tratto caratteriale aggiuntivo ed irresistibile, che sposta continuamente il protagonista sulla strada dei sentimenti. Si passa in un secondo da momenti di isteria, a pause di riflessione, ad atteggiamenti puramente professionali e senza che questi continui mutamenti prendano le sembianze di una maschera grottesca ed inadeguata. Fantastica è inoltre la prestazione di Bruce Willis che gioca in maniera ironica con il suo personaggio in lotta per la difesa dei diritto morali della sua barba. Quasi irriconoscibile in alcuni momenti, si muove davanti alla macchina da presa con l’usuale disinvoltura, regalando allo spettatore momenti divertenti nella loro esagerazione. Curioso inoltre il ruolo di John Turturro, che interpreta l'agente dei divi, ma si tratta di una percezione completamente diversa da quella a cui lo star system ci ha abituati: debole, terrorizzato dai suoi clienti e vittima di atroci disturbi psicosomatici ogni volta che c'è un problema da risolvere, Dick Bell rappresenta forse tutto quello che un agente di successo non dovrebbe essere.

Gli evidenti difetti

Nota dolente dell’intera pellicola è, invece, l’intero impianto registico. Studiato per non essere una parodia, ma uno sguardo dissacrante sul mondo delle produzioni cinematografiche, Disastro ad Hollywood soffre di una costruzione visiva lenta ed agognante. Barry Levinson sembra non aver saputo cogliere alcune sfumature della sceneggiatura e non è riuscito a donare alla pellicola dei momenti più ironici che cinici, che avrebbero entusiasmato maggiormente il pubblico in sala. Forse un soffermarsi su un numero inferiore di eventi avrebbe agevolato la direzione dell’opera che non riesce a bilanciarsi all’interno di innumerevoli situazioni e character. Un vero peccato, perché le basi per una critica distruzione dei miti di Hollywood c’erano tutte ed erano già pronte per essere sfruttate al meglio, non dovendo approfittare di stratagemmi comici o di già troppe volte utilizzati luoghi comuni.

E' curioso notare come il fulcro dell'intera storia sembri cambiare a seconda del titolo imposto al film. L'inglese What just happened? mette in luce solo con delle parole parte del taglio registico dell'opera: una focalizzazione puntuale sui punti salienti della vita del produttore, affiancata da un'agiata ma frenetica routine propinata in fast forward, quasi a suggerire la mancanza di controllo che il protagonista ha sugli eventi, che lo travolgono e lo portano a chiedersi che cosa è stato?. Il titolo italiano, invece, prannuncia il disastro e ci fa tornare con la mente al set fotografico di Vanity Fair, dove l'importanza di un uomo viene stabilita dalla sua posizione all'interno della scritta POWER.

Disastro a Hollywood Disastro a Hollywood possiede tutti i requisiti per essere un film ironico ed intelligente, ma non ha saputo sfruttare le proprie carte per efettuare l'effettivo salto di qualità, divenendo divertente senza tradire i propri obbiettivi. Vittima dei propri meccanismi, secondo i quali i festival accettano un film solo per le proprie star senza neanche visionarlo, l'opera è stata presentata al Sundance Film festival ed è stato il film di chiusura del Festival di Cannes, nonostante non abbia ricevuto reazione entusiaste in nessuno dei due casi.

5

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