Recensione Cocapop

Quando le droghe portano la famiglia alla deriva

Recensione Cocapop
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L'ultima volta che abbiamo avuto modo di vedere su grande schermo un lungometraggio diretto dal pugliese classe 1957 Pasquale Pozzessere - autore di Verso Sud (1992), Padre e figlio (1994) e Testimone a rischio (1997) - fu nell'estate del 2005, quando uscì in sala quel La porta delle 7 stelle che raccontava la storia del piccolo David, con un certo talento per il pianoforte ma destinato a diventare pilota privato da adulto, trovandosi coinvolto nei torbidi commerci attuati da un losco finanziere nei Balcani.
Dopo le parentesi televisive rappresentate da Lucia (2005) e La provinciale (2006), entrambi interpretati da Sabrina Ferilli, il regista torna nei cinema per affrontare la tematica della sempre più discussa e, purtroppo, dilagante dipendenza da cocaina, in tempi recenti anche al centro di curiosi esperimenti nostrani come Polvere (2009) di Massimiliano D'Epiro e Danilo Proietti e Sbirri (2009) di Roberto Burchielli.
Ma, con il suo attore feticcio Stefano Dionisi incluso nel cast, non è su una storia unica che costruisce i circa 86 minuti di visione girati in digitale, bensì attraverso tre differenti episodi ambientati all'interno dello stesso appartamento romano sito nelle vicinanze del Colosseo.

Chiedi alla polvere?

Infatti, si parte con Vittorio, nel quale la Lisa Gastoni ricordata soprattutto per essere stata una vera e propria icona sexy ai tempi di Grazie zia (1968) di Salvatore Samperi scopre, segretamente, che il marito Vittorio alias Arnaldo"Rimini Rimini"Ninchi è solito sniffare la famigerata polverina bianca, tanto da non poterne più fare a meno.
Poi, si prosegue con Lorenzo, ovvero il più lungo dei tre segmenti, in cui il cocainomane di turno è il giovane Stefano Masciolini di Questo piccolo grande amore (2009), che, in un crescendo drammatico, finisce per dare non pochi problemi ai genitori interpretati da Anita Caprioli e dal già citato Dionisi; fino alle (in)aspettate conseguenze.
Ed è invece la stessa Caprioli - che, per la gioia dei maschietti, si concede anche un nudo integrale frontale - a trasformarsi in schiava della droga in Laura, tassello conclusivo dell'operazione che, passando anche per un allegorico risvolto surreale, arriva pessimisticamente - ma in maniera veritiera - a testimoniare in che modo la tossicodipendenza possa rappresentare la fine decisiva della famiglia.
Per un insieme che risulta in parte penalizzato, di sicuro, dalla non sempre convincente prova degli attori e dall'effetto quasi-soap opera conferito dall'uso del digitale nelle produzioni a basso costo; ma che, efficacemente commentato dalle musiche di Mats Hedberg e costruito su lenti ritmi di narrazione gestendo a dovere l'attesa e la tensione, appare decisamente superiore rispetto al precedente film di Pozzessere, il quale ne sintetizza così il significato: "Dietro la facciata da ‘routine' scopriamo anime fragili che lottano contro le proprie paure e cercano di affrontare quel ‘vuoto psicologico' che ha generato il contatto con la droga e che la droga stessa alimenta dando l'illusione di poterlo riempire".

Cocapop “Si parla molto di cocaina, spesso collegata a film d’azione, inchieste o documentari. Io ho voluto analizzarla nella sua solitudine, nel suo rapporto privato con il fruitore di cui spesso diventa l’amante segreta prescindendo dalla vita sociale dei protagonisti che pure esiste. Si tratta di persone intelligenti, benestanti, istruite. Gli eventi nascono, si sviluppano, si aggrovigliano all’interno del nucleo familiare che diventa territorio di guerra”. Sarebbe sufficiente questa dichiarazione del regista Pasquale Pozzessere per poter capire le intenzioni del suo Cocapop, lungometraggio di cui ha curato anche sceneggiatura e produzione che, strutturato in tre episodi ambientati nel medesimo appartamento di Roma, affronta la tematica della dipendenza da cocaina. Per uno spaccato relativo alla droga quale causa della disgregazione familiare che, pur senza riuscire ad evitare i difetti tipici delle produzioni realizzate a basso costo, coinvolge in maniera efficace attraverso i suoi lenti ritmi di narrazione e non rientra affatto tra le cose peggiori firmate dal cineasta pugliese.

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