Cloud Atlas, la recensione del film dei fratelli Wachowski

I fratelli Wachowski alle prese con la reincarnazione.

Cloud Atlas, la recensione del film dei fratelli Wachowski
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"Our lives are not our own, from womb to tomb, we are bound to others. Past and present. And by each crime... and every kindness... we birth our future."

Questo il leitmotiv del nuovo film dei fratelli Wachowski, questa volta al lavoro condividendo i set della loro ultima fatica col regista tedesco Tom Tykwer, fautore tra gli altri di Lola corre (1998), Profumo - Storia di un assassino (2006) e The International (2009). L'ispirazione deriva dal romanzo L'atlante delle nuvole, pubblicato nel 2004 dal noto romanziere David Mitchell e finito tra le mani dei fratellini di Matrix durante le riprese di V per Vendetta, del quale erano sceneggiatori e produttori. È passato molto tempo da allora, ma infine il progetto ha preso effettivamente forma come prodotto di matrice indipendente ed europea, segnando uno degli sforzi economici più importanti di sempre da questo punto di vista, con un budget stanziato di circa 100 milioni di dollari. Una cifra di tutto rispetto, necessaria a realizzare un progetto ambizioso come quello di un film ambientato in sei periodi storici completamente differenti, con un cast di grandi attori e ambizioni artistiche di un certo livello, che hanno portato ad una pellicola complessa e stratificata.

Il tutto si articola, difatti, lungo sei binari temporalmente distinti eppure, in qualche modo, paralleli, poiché protagonisti e comprimari delle sei storie sono reincarnazioni o versioni invecchiate degli stessi, che assumono, di volta in volta, ruoli più o meno prominenti. Pur notando, tramite i déjà vu tanto cari ai Wachoski, qualcosa che li spinge verso un destino inspiegabilmente accomunato tra loro, i personaggi di Cloud Atlas hanno vite completamente diverse, anche per indole personale, rispetto alle precedenti incarnazioni. Il film apre e chiude trecento anni nel futuro con il racconto di Zachry, pastore in un Terra ormai regredita allo stato di diversi millenni fa, che raccoglie le fila della sua storia e, in un certo qual modo, quella dei suoi precedessori. La vicenda più lontana nel tempo è quella del giovane rampollo ottocentesco Adam Ewing, avvocato in viaggio d'affari nell'Oceano Pacifico coinvolto in una vicenda in cui avidità e schiavismo sono i temi principali. La storia si sposta poi a Edimburgo nel 1936, dove Robert Frobisher, musicista bisessuale, lotta per affermare la propria arte a dispetto della propria reputazione; seguiamo dunque l'avventura di Luisa Ray, giornalista investigativa nella California degli anni '70, che rischia la vita per aver scoperto qualcosa di troppo su un complotto industriale; ai giorni nostri, invece, l'anziano editore Timothy Cavendish, per sfuggire a degli strozzini, finisce in una casa di riposo dai metodi alquanto “coercitivi”; infine, nel 2144, ci ritroviamo catapultati in una realtà distopica nella quale i cosiddetti artifici (esseri umani letteralmente 'coltivati') vengono usati e abusati. Nel momento in cui una di esse, Sonmi~451, viene liberata, si innesca un pericoloso meccanismo a catena...

“While my extensive experience as an editor has lead me to a disdain for flashbacks and flashforwards, and all such tricksy gimmicks, I believe that if you, dear reader, can extend your patience for a just a moment, you will find there is a method to this tale of madness.”
Queste le prime parole dell'editore Cavendish nel film, che chiaramente servono, come molte altre frasi della pellicola, ad illustrare non solo l'attimo contingente ma la visione generale della storia e dell'opera. È, tuttavia, una premessa lievemente ingannevole, perché per tirare il bandolo della matassa non basterà “solo un momento” quanto quasi tre ore, mettendo a dura prova l'interesse (se non i nervi) dello spettatore.
Le sei storie sono difatti narrate in parallelo, ma i salti tra l'una e l'altra appaiono spesso tutt'altro che logici e collegati: prestando attenzione si notano tutta una serie di dettagli, ricorrenze, temi che si rincorrono e sono la cosa più interessante di un ensamble per il resto, invero, assai confuso, almeno alla prima visione. Il tema principale è quello del destino, inteso non come fato inevitabile ma come il fatto che le passioni umane abbiano ripercussioni ben più lontane e profonde di quanto possiamo immaginare sul momento. Senza contare che armonie e passioni, come l'amore e la musica, resistono “nell'aria” e tornano a trovare i rispettivi padroni. Affascinante per gli appassionati di new age, ma tutt'altro che convincente o “mind-blowing” quanto successe con, ad esempio, la “realtà” di Matrix, avvicinandosi piuttosto a certe visioni proto-malickiane. Il tutto poi è dato per buono in maniera assai scontata, senza tenere in debita considerazione il fattore verosimilarità. Sta bene il tema della reincarnazione e dei legami spirituali e/o carnali tra le persone così forti da ripetersi in un ciclo, ma possibile che sia solo una serie di circoli quasi “a tenuta stagna” con sempre gli stessi “attori” a calarsi ogni volta in parti diverse su di un palcoscenico condiviso? Inoltre il tutto è avulso dal concetto di karma, rivelando che le proprie azioni avranno ripercussioni sul futuro, ma essere buono o cattivo non implica una vita di per se migliore o peggiore alla prossima reincarnazione. Ne consegue una sensazione di artificio fin troppo palese, acuita dal fatto di vedere la stessa manciata di attori truccata, di volta in volta, nelle maniere più impensabili per differenziarli marcatamente dalle altre incarnazioni, pur rimanendo distinguibili.
Inoltre le sei vicende sono estremamente diverse per genere, e questo nel libro è rimarcato meglio, mentre nel film si nota un appiattimento nei toni che stona alquanto, per cui la vicenda ambientata al tempo dei coloni è girata nello stesso modo di quella ambientata nel futuro. Senza soluzione di continuità si passa dal dramma in costume alla spy story alla fantascienza alla commedia sopra le righe, senza accentuarne le differenze pur in uno stesso filo logico. Le uniche le ravvediamo, più che altro, nella “mano” dei registi che è visibilmente diversa (i tre filmmaker si sono, infatti, divisi le varie storie). La trama, così frammentata, risulta difficile da seguire, così come arduo diventa affezionarsi ai suoi personaggi, spesso, in realtà, solo abbozzati.

Cloud Atlas Se tre ore sono spesso eccessive per raccontare una storia, sono decisamente poche per raccontarne sei intrecciate fra loro: probabilmente, come miniserie televisiva il progetto avrebbe funzionato molto meglio, dando il giusto spazio ad ogni personaggio senza forzature o artifizi. Così com'è, Cloud Atlas risulta alla fine dei giochi troppo pesante per quello che vuole trasmettere. Ed è un peccato e uno spreco, perché tecnicamente il film, per non essere una produzione hollywoodiana, si mantiene su discreti livelli, innalzati senza dubbio da un cast di grandi professionisti tra cui spiccano i rinnovati Tom Hanks e Hugo Weaving.

5.5

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