Recensione Cemetery of Splendour

La volontaria Jen e la medium Keng si incontrano in una clinica ospitante soldati affetti da una misteriosa malattia del sonno in Cemetery of Splendour, dramma fantastico di Apichatpong Weerasethakul.

Recensione Cemetery of Splendour
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Una clinica improvvisata, nei pressi di una scuola abbandonata di un piccolo villaggio di compagna, ospita diversi soldati affetti da una rarissima ed inspiegabile patologia che li porta a dormire per lunghi periodi di tempo, interrotti solo saltuariamente da qualche ora di risveglio. La volontaria Jenjira, da poco sposatasi ad un ex-militare americano, si prende cura dei malati affezionandosi in particolare ad Itt, uno dei suoi pazienti. Con l'aiuto della giovane Keng, dotata di capacità medium ed in grado di comunicare con i dormienti, e illuminata dall'improvvisa apparizione di due dee del vicino tempio, Jen scopre che la sindrome da cui sono affetti i soldati è dovuta alla presenza degli spiriti di antichi re, ai tempi abitanti nello sfarzoso palazzo che si trovava proprio sulle fondamenta della scuola.

Il grande sonno

Non è semplice il Cinema di Apichatpong Weerasethakul, regista tailandese che aveva già conquistato la critica qualche anno or sono con lo splendido Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti (2010), Palma d'Oro al 63° Festival di Cannes. Con la sua ultima opera il cineasta torna nella sua città natale ambientandovi un racconto sospeso tra il mondo dei vivi e quello dei morti che si erge a metafora, tramite la sua particolarissima identità di dramma fantastico fuori dai generi, della condizione sociale del suo Paese, in bilico negli ultimi decenni tra dittature e vaghi ed instabili periodi di flebile democrazia. Metafora ben rappresentata dallo stato catatonico nel quale sono immersi per la maggior parte del tempo i pazienti - soldati, alle prese con sogni in cui rivivono la gloria di fantasmi secolari. Proprio in uno stile paradossalmente riflettente delle trattenute emozioni vissute dai dormienti si instaura un ritmo lento e opprimente che richiede allo spettatore un'enorme dose di pazienza (ben ripagata) nell'assistere ad una vicenda solcata da lunghe inquadrature fisse e nella quale la natura, ritratta soprattutto dal punto di vista sonoro con una totale carica immersiva, gioca un ruolo predominante quale beffarda spettatrice del destino dei mortali. Si gioca con l'ironia nelle due ore di visione, in primis nel passaggio dove Keng viene "posseduta" dallo spirito di Itt, ma lo sguardo generale è quello di un malinconico simposio incentrato sul distacco tra passato, presente e futuro, come ben sottolineato dagli scavi che hanno luogo in sottofondo nella piccola cittadina in cui sono ambientati gli eventi. La stessa componente sovrannaturale in Cemetery of Splendour diventa reale in un gioco di amara e falsa finzione privo di effetti speciali di sorta, trasformando il mistero dietro lo stato catatonico dei militari in un viaggio interiore alla riscoperta del proprio Io vissuto dalla stessa protagonista, combattuta tra attaccamento alle radici ed inevitabile modernità.

Cemetery of Splendour Un'opera di trasformazioni, interiori e non, che riguardano non solo il destino della protagonista e del suo paziente Itt, affetto da una misteriosa malattia del sonno, ma anche in chiave metaforica la condizione attuale della Tailandia, Paese dall'instabilità sociale e politica diviso tra fedeltà alle tradizioni e rincorsa alla modernità. Apichatpong Weerasethakul realizza con Cemetery of Splendour un film solo apparentemente semplice nella narrazione ma in realtà ricco di significati, la cui fruizione diventa complessa per via di tempi estremamente dilatati che rallentano volutamente il ritmo della storia per concentrarsi in un'ode al Tempo e alla Natura, vera e propria silente co-protagonista del racconto. E gli elementi fantastici che attorniano questo dramma esistenziale delle piccole cose donano un fascino magico e suadente, capace di conquistare gli spettatori più pazienti ed interessati a scoprire quanto nascosto dietro la scarna messa in scena ben più che flirtante con un stile semi-documentaristico.

7.5

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