Recensione Cargo 200

Un'epopea sovietica cruda e violenta che però non riesce ad appassionare

Recensione Cargo 200
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Russia, 1984. Il compagno Andropov è appena morto e l'Unione Sovietica sta vivendo gli ultimi sussulti dei socialismo reale prima di sciogliersi completamente con la perestroika di Mikhail Gorbaciov.In un villaggio alle porte di Leningrado (che oggi chiameremmo San Pietroburgo) un professore di ateismo scientifico (Gromov) in piena crisi mistica si ferma in una Dacia a causa di un guasto alla sua auto. Incontrerà così Aleksey (Serebryakov), un ex galeotto integralista religioso che sta tentando di costruire la Città del Sole narrata da Campanella contrabbandando illegalmente Vodka. Poco dopo la partenza del professore un'altra auto si fermerà nei pressi della Dacia, con a bordo due giovani, Angelika (Kuznetsova) ed il suo ragazzo. Purtroppo però, quando il fidanzatino sprofonderà in un profondo sonno alcolico, Angelika resterà nelle mani di Aleksey e del suo inquietante compagno, il capitano di polizia Zhurov (Poluyah) che deciderà di rapirla e segregarla nel suo appartamento nella periferia di Leningrado.Per la ragazza inizierà così un'odissea di sevizie e stupri, perennemente incatenata ad un letto da parte di Zhurov e dei suoi commilitoni.

L'ultimo film di Balabanov, presentato a Venezia come pellicola d'apertura delle giornate degli autori, non fa sconti e, con la forza di un pugno nello stomaco, traccia un ritratto angosciante e pessimista della Russia di vent'anni fa. Con un piglio che nulla lascia alla poesia, il cineasta russo usa la cinepresa come un bisturi andando a scavare nei recessi più profondi e bui dell'animo umano, raccontandoci l'abisso sociale e morale di una nazione agonizzante. Il regista traccia con poche, semplici inquadrature la schizofrenia dell'Unione Sovietica degli anni '80 che, pur continuando formalmente ad essere uno stato comunista, comincia a subire i primi influssi occidentali. Vediamo così ragazzi abbigliati con Ray-ban e jeans, ragazze che camminano sui tacchi a spillo e, contemporaneamente, fatiscenti capannoni abbandonati che si stagliano ossessivamente sullo sfondo di ogni scena, quasi ad incarnare, con le loro anime di acciaio e cemento, il passato che si vorrebbe cancellare. Balabanov però non ha scelto di girare una parabola sociale sulla perdita dell'identità, Cargo 200 si concentra su tre storie che poco o nulla hanno a che fare con la grande Storia; nella loro banalità i personaggi del film sono ancora più inquietanti a partire dal sadico capitano Zhurov che commette atrocità di ogni genere senza mai mostrare un minimo rimorso, fino al timoroso professor Artem che incarna perfettamente lo stereotipo dell'uomo senza qualità, incapace sia di salvare Angelika (pur avendone la possibilità) che di salvare se stesso, chiudendosi in una colpevole omertà per non danneggiare i suoi interessi di Partito. Ma è nel personaggio di Angelika che il regista pone più enfasi, la ragazza umiliata e sottomessa diventa un archetipo dei nuovi russi di quegli anni, maturi fuori ma ancora bambini dentro; ed è significativo che Angelika, come unica ribellione da opporre al suo torturatore, si limiti a urlare disperatamente che suo padre è il segretario regionale del Partito comunista. Di nuovo un contrasto fra presente e passato, fra ordine e anarchia, fra il partito che tutto poteva e la lucida follia individuale, impossibile da fermare e da prevedere.Nel raccontare tutto questo Balabanov non fa alcuno sconto allo spettatore, costringendolo a seguire i protagonisti sempre più giù nell'abisso fino a toccare il fondo, d'altro canto il film non fa neppure nulla per ingraziarsi il pubblico, gli strappi di scena sono repentini e i dialoghi quasi sussurrati, viene difficile immaginarsi un film recente meno "vendibile" di questo.Le due caratteristiche qui citate non sono negative in sé ma, purtroppo, il regista non riesce a chiudere il cerchio, concentrandosi troppo sull'aspetto più morboso del film (ovverosia il rapporto fra Zhurov e Angelika) dimenticandosi il contesto generale; Cargo 200 finisce così per diventare una sorta di horror domestico, per definizione chiuso rispetto al mondo esterno ed incapace di ritrarre realisticamente la società russa degli anni '80. Meno attenzione al lato pruriginoso della vicenda ed una maggiore sistematicità avrebbero probabilmente giovato al film che, purtroppo, appare come un'opera affetta da un dualismo fin troppo marcato, con una prima parte corale ed un finale che si trasforma in un assolo violento e fin troppo esagerato nei toni e nelle intenzioni.

Il cast si dimostra tutto all'altezza della situazione a partire dalla giovanissima e bravissima Agniya Kuznetsova (qui alla sua prima esperienza cinematografica) che riesce a trasmettere un senso di angoscia e prigionia non comune, fino ad Aleksey Poluyah che tratteggia il suo sadico capitano con poche occhiate e gesti misuratissimi. L'abilità dei due protagonisti sta tutta qui, l'essere in grado di offrire interpretazioni che oggi noi chiameremmo quasi "sintetiche", prive dell'impostazione drammatica propria del Metodo; in questo modo le movenze stesse, gli sguardi ed anche le espressioni diventano parte integrante del lavoro scenico trasmettendo lo stesso senso di squallore e schifo delle ambientazioni.

Cargo 200 Cargo 200 è un film molto difficile e praticamente privo di appigli. Il regista ha scelto di battere la strada dell’ultra-realismo, con tutti i rischi che ne conseguono; purtroppo il film, dopo un breve attacco iniziale, non riesce però ad eseguire il dovere che si era imposto, cioé quello di raccontare gli ultimi anni della zastoy finendo per battere troppo sulla componente sadica della storia perdendo di vista il quadro generale in cui aveva deciso di muoversi.

5