Recensione Captivity

Torture, torture e ancora torture

Recensione Captivity
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Filone "enigmista"

Dopo il successo della trilogia di Saw, è scattata la moda dei thriller psicologici grondanti sangue. Come frequentemente avviene, questi tentativi di sfruttamento dell'effetto scia non sempre portano a risultati di qualità, e spesso gli spettatori si trovano davanti dei film fotocopia, che non brillano certo per originalità, e nemmeno per maestria tecnica.
Il sospetto che anche questo Captivity, ultimo di un'interminabile serie, sia destinato ad allungare la lista delle già tante pellicole horror di cui non si sentiva il bisogno è molto forte, e nonostante alla regia faccia bella mostra di sè l'altisonante nome di Roland Joffé (dai più ricordato per The Mission e La Lettera Scarlatta), è lecito non riporre troppe aspettative in questo lavoro, onde non subire l'ennesima cocente delusione.

Senza via di fuga

Un misterioso serial killer ha preso di mira Jennifer Tree, la modella più in auge di New York. La segue e la riprende con una telecamera, prima di rapirla e portarla nella casa delle torture che ha allestito ad uso e consumo della propria vittima: la giovane avrà infatti a disposizione parecchi dei propri vestiti, il necessaire per occuparsi del maquillage e, nel caso avesse dimenticato alcune sue, invero piuttosto antipatiche, dichiarazioni alla stampa, le sarà data la possibilità di rivedere le sue interviste più significative sugli schermi disseminati nel momentaneo domicilio. Tra le quattro mura spoglie della sua prigione altamente tecnologica, Jennifer verrà messa a confronto con ogni tipo di paura (la solitudine, il buio, la prospettiva di ritrovarsi col suo bel volto corroso dall'acido), finché non scoprirà che nella cella adiacente alla sua è incarcerato un altro giovane. L'avere accanto Gary le darà coraggio e insieme i due cercheranno di contrastare il terrificante omicida.

Lontani ricordi di un passato dorato

L’epoca in cui Roland Joffe trionfava con capolavori come Mission pare ormai lontana (non soltanto per il fatto che la pellicola risale al 1986), ed il regista sembra non aver ancora digerito i flop di Super Mario Bros. e Vatel. L'esordio al thriller gli è facilitato dallo sceneggiatore Larry Cohen (Cellular, In Linea con l'Assassino) che confeziona un prodotto claustrofobico, orrorifico e, a tratti, condito da scene piuttosto crude, nell'ovvio tentativo di compiacere gli appassionati del genere.
Purtroppo, però, la trama non riesce minimamente a esaudire le aspettative iniziali, perdendo progressivamente di pathos e scadendo addirittura, nel corso delle fasi finali, nel ridicolo. Durante la prima parte del film è possibile infatti percepire una sensazione di costante pericolo, non solo perchè le torture messe in atto dal mostro incappucciato sono girate con una discreta perizia, ma soprattutto perchè alcuni particolari sembrano voler delineare una precisa volontà, da parte del rapitore, di colpire nel vivo i simboli (la bellezza, il successo, il guadagno, rappresentati dall'affascinante protagonista) di una società fondata sull'immagine e sull'apparenza. Non sarà una trovata particolarmente innovativa, ma quantomeno è sintomo di un seppur minimo approfondimento psicologico, unitamente alla propensione del killer ai giochini sadici, volti ad illudere la propria vittima di avere una concreta possibilità di fuga per poi farla piombare sempre più nello sconforto. Peccato che nel secondo tempo il tutto inizi a vacillare, fino a cadere miseramente, insieme alle braccia dello spettatore, quando verranno esposte la natura e le motivazioni dell'assassino, del tutto diverse, e in maniera non certo sorprendente in positivo, da quelle di cui si era congetturato poc'anzi. Non regge neanche la storia d'amore che nasce tra le due vittime, e anzi viene da sorridere quando, improvvisamente incuranti del pericolo (nonchè della consapevolezza di essere spiati), si uniscono in un amplesso che non può che essere voluto e messo a punto dal killer.

Captivity Captivity è un caso emblematico del concetto di potenziale sprecato. Un film che poteva esprimere (e sembrava persino iniziare a farlo) concetti come la necessità di scendere a compromessi pur di sopravvivere, la stigmatizzazione della finzione televisiva, la persecuzione sadica di un simbolo inteso come capro espiatorio, si riduce ad un filmetto banale che non vale neppure in parte il prezzo del biglietto. Assolutamente da evitare.

4.5

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