Captive State, la recensione del thriller sci-fi con John Goodman

Da dieci anni degli alieni oppressori hanno conquistato la Terra, vivendo nei sotterranei e monitorando la popolazione umana.

Captive State, la recensione del thriller sci-fi con John Goodman
Articolo a cura di

In passato il nostro mondo ha conosciuto feroci dittature, ha attraversato conflitti mondiali e brutali, sperimentato l'orrore dell'olocausto. Ogni battaglia però era combattuta da simili, uomini da una parte e dall'altra della barricata, cosa accrebbe invece nell'eventualità che forze aliene riuscissero a soggiogarci, poiché troppo potenti militarmente?
È ciò che si immagina in Captive State Rupert Wyatt, già regista de L'Alba del Pianeta delle Scimmie, The Gambler, The Escapist, che ha scritto il film a quattro mani con Erica Beeney. Ci troviamo in una Chicago molto diversa da come la conosciamo oggi, una vera e propria colonia aliena in cui gli uomini sono monitorati costantemente grazie a larve sentinella impiantate in gola. Ogni essere umano è così tracciato digitalmente e non può mai uscire dai binari soliti della sua routine, fatta per la maggior parte del tempo di lavoro monotono e ripetitivo.
Per nostra natura, però, siamo incapaci a rimanere schiavi di qualcosa o qualcuno, si sviluppa così una sorta di resistenza, uomini e donne che operano nell'ombra e ambiscono a un obbiettivo comune: liberare il mondo dagli invasori alieni, che impossibilitati a vivere nell'atmosfera terrestre hanno creato vere e proprie città sotterranee nei meandri del Pianeta.

Tutto sotto controllo

Tutto viene controllato e monitorato tramite telecamere di sorveglianza e droni sentinella, che tappezzano palmo a palmo la metropoli di superficie. Nonostante l'assenza di barriere fisiche, ci si trova in una specie di gigantesca galera, in cui ogni passo è registrato e analizzato. Un incubo possibile anche a molti uomini che si sono svenduti per la causa, come il personaggio ambiguo di John Goodman, che al pari di un'agenzia governativa (sempre al confine fra legalità e segreto) lavorano per gli alieni e aiutano a mantenere ordine sul territorio.
Non ci sono dunque creature "estranee" sulla superficie terrestre? Sono rintanate solo in ambienti protetti, dove non arriva mai la luce del sole? Non proprio.

Rupert Wyatt sfrutta lo stratagemma degli alieni sotterranei per mostrarli il meno possibile su schermo, mascherando magistralmente un budget non proprio estremo, esistono però dei momenti di massima allerta in cui gli invasori escono eccome allo scoperto, aiutati da tute organiche molto elastiche, viscide e spaventose, in grado di dilatarsi o contrarsi all'occorrenza - con aculei affilati.
Difficile atterrare bestie simili, alte dai 2 ai 4 metri, anche perché non ci sono armi in circolazione, bisogna accontentarsi di strumenti rudimentali oppure farsi coraggio e strappare a mano i "caschi" alle creature, lasciandole soffocare nel giro di pochi secondi. Operazione tutt'altro che semplice, vista la loro forza, i loro scatti fulminei, i loro pericolosi spuntoni.

Cattività

Rupert Wyatt porta gli spettatori all'interno di un thriller fantascientifico che pone l'attenzione sull'essere umano, più che sugli invasori alieni, e sulle reazioni che questo può avere quando è costretto a vivere "in cattività", braccato da una razza superiore. In un mondo in cui il cinecomic è ormai il genere di riferimento, pieno zeppo di supereroi e supereroine, per una volta si torna alla semplicità più assoluta, raccontando una storia fatta di uomini e ragazzi comuni, che di speciale non hanno praticamente nulla.
Sono spinti soltanto dai loro ideali di libertà, potendo contare su una rete risicata e poche cianfrusaglie. Forse si rimane fissi sull'uomo anche per troppo tempo, lasciando all'azione e alla battaglia pura e cruda un minutaggio alquanto risicato.

Evidentemente non era intenzione di Wyatt realizzare un action, una scelta comprensibile che regala al progetto anche sparute venature autoriali, qua e là. Questo però cede il fianco a una scrittura che si adagia troppo sugli allori, macchinosa, che dilata tempi, dialoghi e sequenze, che merita attenzione assoluta per riordinare tutti i pezzi della scacchiera - altrimenti perdersi risulta estremamente facile e frustrante.
Una volta compreso il meccanismo, però, tutto si fa più disteso e appassionante, inoltre l'aspetto migliore del film è il suo fattore sorpresa. Quando si crede di aver capito il fine ultimo della vicenda, Wyatt e Beeney sovvertono l'ordine delle cose, arrivando così all'epilogo con positivo affanno (tutto cinematografico, si intende) e una vena di stupore, che dà un nuovo significato al lungometraggio.

Oppressi e oppressori

La chiave di tutto sta nel teorizzare un'invasione globale e la nostra reazione in quanto uomini, e fa effetto vedere gli Stati Uniti - nell'immaginario collettivo una potenza impossibile da piegare, le cui regole dominano l'intero mondo - venire schiacciati da una forza più grande di loro. È una critica politica feroce, che per una volta pone gli americani (nel particolare, ma il discorso si può facilmente allargare) dall'altra parte della barricata, nel ruolo degli oppressi e non degli oppressori.
Un tema sempre "caldo" e attuale, soprattutto in un mondo in cui serpeggia sempre di più l'odio verso alcune minoranze e ognuno si sente superiori a tutti, quasi onnipotente - dimenticando la propria storia e i propri errori.

Il cinema di fantascienza si fa così veicolo di sentimenti positivi, seguendo un percorso fatto però di sangue, sudore, ansia, paura e disperazione. Siamo dalle parti di District 9 di Neill Blomkamp (lo stesso Neill Blomkamp del trailer di Anthem), dal punto di vista tematico, in ambienti però infinitamente più cupi e pericolosi, con spie, bugiardi, ribelli, alieni letali ad aggiungere pepe alla faccenda.
Se nella concezione classica bisogna ascendere al bene, salire verso il cielo per aggiudicarsi un posto in paradiso, nel mondo al contrario di Rupert Wyatt la massima ambizione è invece scendere nelle viscere della Terra, per sedersi allo stesso tavolo degli invasori. Sarete abbastanza virtuosi e servili da meritare il vostro ascensore per l'inferno?

Captive State Rupert Wyatt, regista de L'Alba del Pianeta delle Scimmie, prende per mano lo spettatore e lo porta in un mondo claustrofobico governato da alieni invasori. Se questi si rifugiano nei meandri della Terra per via dell'atmosfera ostile, in superficie gli uomini - costantemente monitorati - lavorano per loro come schiavi. Qualcuno però non ci sta e organizza una ribellione. Un thriller sci-fi che regala momenti di buon cinema, nonostante una sceneggiatura che si incarta spesso su se stessa e rischia di confondere troppo le sue carte. Una volta entrati nel meccanismo, prendere le parti della resistenza non sarà difficile, attenzione però: le sorprese non mancano di certo. L'azione è ridotta all'osso, persino gli invasori alieni sono mostrati pochissimo, se vi aspettate uno splatter action dunque pensateci due volte prima di acquistare il biglietto. Si parla soprattutto di politica, di oppressi e oppressori, ribelli e svenduti, di uomini - in sostanza - chiamati a reagire a una situazione limite, dove la loro libertà è solo un ricordo del passato. Cosa faremmo nel caso in cui la Terra venisse invasa da violenti abitanti di altri pianeti?

6.5

Che voto dai a: Captive State

Media Voto Utenti
Voti: 14
6.6
nd