Recensione Capitalism - A Love Story

Il nuovo documentario del vulcanico Michael Moore

Recensione Capitalism - A Love Story
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L'inizio è forte e deciso. Il capitalismo è un'assidua rapina. La borsa di New York cinta dal cinematograficamente noto nastro giallo della polizia, come giustamente si fa per isolare i luoghi criminosi (in questo caso si dica meglio criminogeni). Stupirà le menti un po' sclerotiche di alcuni italiani, perchè questo film è, intuitivamente, anti-capitalista, ma per niente comunista (!). Anzi. Michael Moore ha la pretesa di agognare ad una sorta di democrazia etica, forse ideale, forse anche un po' utopica, suggerendo certe zone europee (temo manchi l'Italia, ma non è detto...) come modello cui gli US dovrebbero ispirarsi, qualora un giorno riescano ad affrancarsi dalla loro prosopopea imperialista (per altro già stigmatizzata in altri suoi lavori precedenti, come Canadian bacon).La nuova fatica del ventruto Moore, partendo dall'attuale crisi economica che sta avendo conseguenze assai più nefaste oltreoceano che non in terra d'Europa, analizza l'attuale stato di salute del sistema, evidenziando nitidamente tutti quei terribili effetti, non collaterali ma centrali, che il capitalismo continua a profondere, su tutti il pauperismo selvaggio che, dice Moore, fa arricchire l'1% della popolazione, disagiando fortemente l'altro 99, nonostante si stia trattando della più ricca nazione dell'emisfero. Imputato numero uno: le corporations, imputato numero due: il governo americano, con il super-nutrito ausilio delle banche e della sempre più truffaldina Wall Street.

Poveri americani!

Michael Moore, ormai lo si sa, è un maestro del documentario politico, non ha mai aspirato all'imparzialità, alla moderazione, piuttosto alla schiettezza, facendo ricorso spesse volte ad una demagogia un po' scontata, ma riuscendo a salvare il tutto con uno spiccatissimo senso dell'ironia. Ridere e riflettere. In questo lavoro si procede su questi stessi segni, ma si riflette forse un po' di più, nonostante il linguaggio scelto. Un codice di comunicazione troppo semplice, troppo schematico per trattare una materia così composita e pervasiva, ma di questo non possiamo fargliene una colpa alla luce delle sue giustificazioni. E' lo stesso Moore ad illustrarci, al Festival di Venezia, come per tentare di spiegare qualcosa agli americani servano cose chiare, spurgando qualsiasi forma complessa, scusandosi con noi europei, comprendendo come tutto ci possa sembrare troppo poco approfondito. Pare che Moore conosca molto bene i suoi connazionali, rivolgendosi a loro come dei disabili, verso i quali, per impartire qualcosa, servono insegnanti di sostegno. Così testualmente: "Dovevo farmi capire dalla massa degli americani, che non sanno nemmeno dove siano l'Iraq o l'Italia sulla cartina".Questo parrebbe essere il mandato di fondo dell'opera, se nonchè il nostro è troppo ironico ed intelligente per essere solamente pedagogico. Sono queste due ore angosciose ed esilaranti al tempo stesso. Gentili e rabbiose. Vengono sbattute in primo piano, come già si era visto, i volti sofferenti e lacrimosi di campioni di famiglie americane, che ben stridono con le immagini di plastica da "american dream" o "american way of life", smontando pertanto gli ultimi 50 anni di propaganda "american-hollywoodiana". Nonostante l'importanza della controinformazione, il film però, dal punto di vista strettamente stilistico, non è un capolavoro, inferiore rispetto a sue precedenti fatiche. E' un'opera saltabellante da spezzone a spezzone, che volontariamente storna la linearità, alla quale invece viene preferita le semplicità di una comunicazione diretta, da montaggio parallelo, per i motivi suddetti. Un lavoro montato per comunicare con gli americani, che quindi ad un occhio educato allo spettacolo visivo risulterà, ineluttabilmente, un po' troppo piatto. Sono queste pecche volontarie e decisioni forzate come si è detto, ma ciò non toglie la slegatura di alcune parti, riferimenti farraginosi o porzioni del tutto marginali, mende che inficiano quello che comunque rimane un buonissimo lavoro, meritevole di una riguardosa visione.

Se Dio è morto...

Moore ha la pretesa di dividere, altro tema centrale e pregnante, il capitalismo dalla democrazia, tesi abbastanza originale, registrando come queste spesso entrino in conflitto e come la vittoria spetti, sempre o quasi, al primo, con buona pace del rispetto per i vinti. Il film continua la propaganda anti-Bush, principale banditore del neo-capitalismo selvaggio con i suoi ingentissimi contributi governativi non rivolti a servizi o beni pubblici, ma alle banche che, notoriamente, non lavorano esattamente nell'interesse della massa. Interessante è la chiusura speranzosa che Moore fa su Obama... interessante perchè probabilmente il film è stato girato quando il nuovo Presidente americano ancora non si era prodigato nella stampa di banconote, nuove di zecca per l'appunto, da consegnare alla banche onde evitare che fallissero, "per evitare di far fallire conseguentemente tutti i piccoli risparmiatori"... persistendo, senza troppi mutamenti, la politica di Bush. Questo, da lezioni elementari di economia, creerà un notevole rinculo inflazionistico, ma almeno darà la possibilità a Moore di girare il seguito di Capitalism, che, oltre ad avere meno aperture speranzose, potrà meno satiricamente intitolarsi "the same poor story". E tanto bene fa il regista ad inserire, da maestro del montaggio documentaristico quale è, spezzoni di Roosvelt, quando non solo professava ideali ancora oggi irrealizzati, ma faceva seguire alle concione i fatti che salvarono, verrebbe da dire oggi eroicamente, gli Stati Uniti da una crisi, quella del '29, anche più nociva, checchè se ne dica, nell'impatto sull' economia reale della società. Ma questa non è la sede per lezioni di storia, nè tantomeno è l'intento creativo di Moore, molto più interessato a mostrare il lato oscuro ed infelice del sistema.Parafrasando una celebre battuta di Woody Allen da Nietzsche...Dio è morto e neanche il capitalismo sta troppo bene.

Capitalism: A Love Story Michael Moore firma un altro documentario di taglio socio-politico, questa volta sull'argomento centrale della socio-politica: il capitalismo. E' questa un'indagine schietta, populista, ma spietata; il sistema ne esce malissimo e Moore non intende assolverlo, anzi arriva sino a mostrare le lacrime delle famiglie distrutte dalla crisi, con piglio demagogico, ma senza inventare nulla. E' un cinema del dolore che si contrappone alla politica del "va tutto a maraviglia", che anche in Italia conosciamo molto bene. Per quanto Moore parta dalla crisi attuale, il film tenta un'analisi, certamente angosciosa, sull'intiero sistema, non senza la sua sana dose di ironia dissacrante che ha sempre contraddistinto lo spirito del regista. Un lavoro certamente anti-capitalistico, quindi non conforme, ma che, di là da qualche speranza "obamiana", non persegue intendimenti di sinistra, ma che vuole sperare in una democrazia non strozzata dalla pauperistica economia, quindi più a dimensione uomo, più utopica quindi, che Moore sente tremendamente lontana dal suo paese.

7

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