Dopo cinque film, qualsiasi regista perderebbe fisiologicamente qualche "colpo". Bumblebee, lo spin-off diretto da Travis Knight, arriva con la voglia di portare "aria nuova" nel franchise dei Transformers dopo un decennio di dominio Michael Bay. La scelta inizialmente democratica di un regista come Bay si è nel tempo tramutata in una vera e propria tirannia per il "popolo" spettatore, una dittatura cinematografica con la quale si è continuato a legiferare a colpi di ipertrofia visiva, esplosioni e un senso della narrazione piuttosto sciatto.
La saga dei Transformers si è adagiata soprattutto su due aspetti primari: lo spettacolo ipercinetico, massicciamente compresso in territorio action, e la riscrittura - quando divertita e quando fin troppo seriosa - della storia dell'umanità, continuando su questa falsariga per dieci lunghi anni.
Perché sembrava che l'unica chiave di lettura possibile per questi robottoni fosse l'azione martellante, scandita da scontri più o meno simili tra loro e infarcita di battute e teorie complottistiche strampalate. Così si pensava si potesse confezionare un franchise di successo: prendendosi sul serio ma scherzosamente, con un montaggio serrato senza ritegno, arrivando nonostante questo a film lunghi quasi tre ore.
Bay ha fatto di tutto questo uno specifico mantra per portare in sala i suoi Transformers, mentre i produttori ignoravano i feedback del pubblico, tanto che con L'Ultimo Cavaliere si è toccato il fondo sul lato profitti (appena 605 milioni nel mondo). Quello è stato però il canto del cigno del modus operandi bayiano, perché con Bumblebee risulta evidente come la chiave di lettura produttiva dello spin-off sia una profonda volontà di distacco da quanto fatto finora, al grido di "semplicità".
Due voci
Questo potrebbe infastidire non poco gli amanti tout court del cinema di Bay, perché il divario stilistico è netto e profondo, ma qualcosa si doveva pur fare per risollevare le sorti di un franchise che meritava di più. Solo perché sono di ferro o acciaio, e hanno circuiti al posto di nervi e muscoli, non significa che non provino qualcosa questi Transformers. Non che i precedenti film non abbiano evidenziato "l'umanità" dei robottoni Hasbro, ma a esclusione del primo capitolo i quattro sequel non sono mai riusciti ad approfondire con tatto e intimità il rapporto uomo-macchina all'interno del franchise, ridendo o mettendo in focus i drammi dell'uomo. Anche ne L'Ultimo Cavaliere, dove la storia di Optimus Prime in lotta con l'eterno amico Bumblebee poteva essere un ottimo slancio per una scrittura più emotiva e narrativamente valida. Invece ogni capitolo ha sempre vissuto la sua spettacolarità e la sua estetica pompata e steroidea come unica virtù, quasi fosse un giocatore bullo di Football americano, costantemente narciso, cieco ai difetti a fronte di risultati tecnici importanti e belli da vedere.
Può funzionare due volte, al massimo tre, ma arrivare a cinque film senza cambiare formula e fare analisi critica porta alla disfatta. Meglio tardi che mai, però, perché con Bumblebee sembra che i Transformers siano finalmente riusciti a ritrovare la propria voce, o meglio due: quella dell'eroe titolare e l'altra della nuova protagonista, la Charlie Watson di Hailee Steinfeld. Il primo come guerriero, la seconda come figlia e adolescente.
Ci troviamo nel 1987, gli anni di Alf alla TV e degli Smiths, nella soleggiata California. Sulla Terra arriva l'Autobot B-127, inviato da Optimus Prime per sfuggire agli attacchi di Decepticon su Cybertron - in guerra aperta - e trovare un mondo dove riorganizzare le truppe della resistenza. La fortuna non sembra guidarlo, però, perché tra tutti i posti dove atterrare, il nostro robottone si schianta casualmente in territorio di addestramento militare, incontrando l'unità del Tenente Jack Burns (un fantastico John Cena) che si mette subito a dargli la caccia, proprio come il Decepticon Blitzwing.
L'inseguimento è intenso e diretto con occhio clinico e preciso da Knight, che dà comunque già prova di sé in apertura con la guerriglia su Cybertron, infarcita di effetti speciali e CGI che però non si sovrappongono con prepotenza alla comprensione e alla fluidità delle scene.
Se Bay è un maestro nel creare imperante caos, per poi riorganizzarlo in modo chiaro nel suo mood confusionario, Knight è un chirurgo dell'immagine: i movimenti dei robot sono cristallini, rallentati un minimo per renderli credibili ma ordinati e opportunamente articolati, con la telecamera che si sofferma di più sulla sequenzialità dello scontro anziché prediligere stacchi di montaggio immediati e d'impatto.
Nell'azione, Knight preferisce fare meno ma sempre bene, con la stessa pazienza che contraddistingue anche la sua militanza in ambito stop-motion. Dicevamo però di B-127 contro Blitzwing e l'unità di Burns. Dopo quello scontro - non vi diremo come -, l'autobot giallo si ritrova senza voce e senza memoria, abbandonato in una sgangheratissima officina meccanica con le sembianze di un Maggiolino Volkswagen. Ed è proprio qui che lo ritrova Charlie, non prima che il film si sia soffermato a sufficienza sulla sua vita e le sue problematiche.
È un po' un'outsider, lei: un maschiaccio amante della musica rock e di motori. Dopo la morte del padre, non sente più un legame sincero e affettuoso con la sua famiglia, con la quale è quasi sempre in lite. La incontriamo il giorno prima del suo diciottesimo compleanno, desiderosa di un'auto tutta sua proprio come accadeva al Sam Witwicky di Shea LaBeouf nel primo Transformers, ma al posto di una Camaro la nostra Charlie si ritrova tra le meni un Maggiolino Giallo, che scopre essere un robot alieno, capace di comprenderla ma non di parlare.
I versi sono però simili a quelli dei bombi, così come il giallo della sua carrozzeria, così B-127 da quel giorno diventa Bumblebee, l'Autobot "pungente".
La funzione nostalgica
Un film davvero riuscito e ben confezionato, questo Bumblebee. Ci troviamo di fronte a un esempio lampante di come cambiare per adattarsi spesso e volentieri aiuti, se stessi e gli altri.
Il primo spin-off cinematografico dei Transformers non funziona soltanto sul piano action, comunque ridimensionato rispetto allo spinto protagonismo insistito dei capitoli precedenti, ma intenerisce, coinvolge e commuove in particolar modo nel comparto narrativo. Il lavoro fatto da Christina Hodson alla sceneggiatura è encomiabile, volto a raggiungere il cuore di una storia che ha come fulcro primario un'amicizia inter-specie e tutto un discorso di amicizia e paternità. È ambientato negli anni '80 e si rifà quindi a grandi modelli del tempo: E.T., Navigator o Cortocircuito, ma prende anche spunto da cult più "recenti" come Il Gigante di Ferro e Real Steel, approfondendo con tatto e intimità la relazione tra uomo e macchina (o alieno), con femminile e anche infantile delicatezza.
Non aspettatevi scene action costantemente al centro della grammatica narrativa, perché qui l'azione è comprimaria, non protagonista. La Hodson e Knight sovvertono attivamente i dictat di Bay e lasciano che il franchise muti pelle, rafforzando la visione registica e l'elemento drammaturgico, modellato a dovere come nuova epidermide del film.
Cavalcando inoltre con intelligenza l'onda della nostalgia anni '80, ambientando direttamente lo spin-off in quegli anni, sceneggiatrice e regista hanno saputo brillantemente incanalare in due ore di film una colonna sonora intensa e molto studiata, vicina per ricercatezza a quella di James Gunn ne I Guardiani della Glassia, ovviamente con ritmi e canzoni tipici dell'epoca.
La funzione nostalgica del film non si esaurisce però soltanto con il background e la OST, perché a rendere tutto più eccitante ci hanno pensato anche i designer, che hanno riproposto sul grande schermo il look originale dei Transformers, quello classico, più pulito, senza troppe revisioni.
Il rendering visivo di Optimus Prime, Blitzwing, Showckwave è interamente rimodellato e fedele all'estetica della prima linea di giocattoli, uscita proprio negli anni '80. Parliamo di linee pulite, con dettagli evidenti tutt'altro che nascosti da un'accozzaglia infinita di fili e cavi. Sempre a proposito dell'azione, Bumblebee può contare su diverse sequenze action, ovviamente, ma tre sono le più importanti e riuscite: la battaglia su Cybertron in apertura, l'inseguimento con Jack Burns e Blitzwing e poi lo scontro finale.
Travis Knight in ognuna di queste tre scene, da grande animatore e appassionato, dimostra che l'esasperazione prolissa e muscolare della scena non ripaga sempre in termini di qualità, scegliendo un approccio molto più semplice e diretto all'azione, rendendola interessante e riuscita valvola di sfogo di una storia che però vuole soprattutto emozionare. Forma e contenuto si stringono in un abbraccio e proprio come Bumblebee e Charlie, anche il franchise dei Transformers ritrova finalmente la sua voce.
Intimità, azione, emozione e divertimento: sono questi i quattro pilastri portanti di Bumblebee, che segna l'inizio di un nuovo e diverso corso dalla curatela Michael Bay. L'ipertrofia visiva e il cinema ipercinetico del regista vengono ammansiti dalla penna leggera e delicata di Christina Hodson e dall'occhio clinico e preciso di Travis Knight, che riescono insieme a creare un connubio vincente tra forma e contenuto, riposizionando l'azione in secondo piano pur lasciandola attiva, e cercando un focus sul rapporto di aiuto e amicizia inter-specie. Il risultato è un film che scalda il cuore in fase narrativa ed entusiasma e avvince per grammatica dell'azione, senza dimenticarsi mai di essere un'opera sui Transformers.