La ventunenne Susannah Callahan è una giornalista del New York Post che, a dispetto della giovane età, gode di molta considerazione da parte del suo capo, il quale decide di affidarle un'importante intervista a un senatore rimasto coinvolto in uno scandalo politico. Qualche giorno prima del colloquio la ragazza inizia però a manifestare degli strani comportamenti, che la portano ad altissime dosi di stress: si blocca a volte nel bel mezzo di un discorso, diventa sensibile ai rumori e dimentica le cose.
In Brain on Fire la situazione di Susannah peggiora progressivamente, nonostante le prime analisi mediche non diano alcun risultato di rilievo. Quando però la donna è vittima di violente convulsioni mentre si trova a letto con il fidanzato, i genitori decidono di ricoverarla ad ogni costo per scoprire quale sia il problema della figlia. Sarà solo l'inizio di un lungo calvario ospedaliero durante il quale nessuno dei dottori sembra comprendere le cause della sua malattia, fisica e psicologica.
Discesa nel baratro
Tratto dall'autobiografia della vera Susannah Callahan, giornalista del New York Post cui venne diagnosticata una rara malattia, l'encefalite autoimmune anti-Nmda, Brain on Fire (i cui diritti sono stati acquisiti in esclusiva da Netflix) è un dramma personale che si inserisce senza troppo nerbo nella copiosa lista di produzioni "ospedaliere" che, in particolare negli ultimi anni, hanno invaso il grande e il piccolo schermo.
Qui fortunatamente il sottotesto romantico, pur presente nella gestione del rapporto tra la sfortunata protagonista e il fidanzato, è solo uno degli elementi di contorno e il cuore della narrazione si concentra sul disagio sempre più crescente della ragazza che, da quando comincia a manifestare i primi sintomi, inizia a cadere in un baratro di follia dal quale non vi sembra essere via d'uscita.
Il regista Gerard Barrett, alla sua terza prova dietro la macchina da presa dopo gli inediti Pilgrim Hill (2013) e Grassland (2014), riesce soprattutto nella prima parte a instillare un profondo senso di inquietudine e paranoia, dando vita a un forte legame empatico con i personaggi. Nella seconda metà cade invece nella trappola del filone, virando su eccessi melodrammatici non sempre supportati a dovere, con una prevedibile monotonia che si prende tutta la scena con lo scorrere dei minuti fino all'ovvio epilogo.
Lo schema classico ha così il sopravvento e tutto sembra accadere perché così dev'essere, fattore in parte imputabile agli eventi realmente accaduti, che non giustifica però scelte stilisiche che scemano progressivamente in stereotipi e cliché di sorta. A concedere grande forza ai novanta minuti di visione è la vibrante performance di Chloë Grace Moretz che, subentrata in corsa alla prima scelta Dakota Fanning, non fa rimpiangere la collega calandosi con la necessaria e sofferta intensità nel non semplice ruolo di Susannah, frequenti dialoghi in voice-over inclusi.
Chloë Grace Moretz è Susannah Callahan, apprezzata giornalista del New York Post colpita improvvisamente da una rara malattia, in questo film autobiografico proposto da Netflix. Un progetto che inizia col piede giusto, creando un assillante senso di straniamento al comparire dei primi, preoccupanti, sintomi, ma si perde in una seconda parte più scontata e prevedibile che toglie importanza anche alle interpretazioni del solido cast. Lo scavo psicologico della protagonista, nonostante l'impegno e la bravura della giovane attrice, e le relative situazioni familiari e sentimentali affossano così Brain on fire su cliché più stilistici che narrativi in un'esasperazione gratuitamente enfatica.