Bohemian Rhapsody, la recensione: l'uomo dietro Freddie Mercury

Oltre la leggenda Freddie Mercury se ne sta un uomo fallibile, timido, insicuro, che Brian Singer ha tentato di tratteggiare con Bohemian Rhapsody.

Bohemian Rhapsody, la recensione: l'uomo dietro Freddie Mercury
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Una giacca gialla aperta su una canottiera bianca, un pugno rivolto al cielo, un paio di occhiali Rayban Aviator appena sopra dei baffi iconici, delle Adidas Hercules inconfondibili, un lungo mantello rosso e una corona. Sono soltanto alcuni degli elementi che hanno contribuito a rendere Freddie Mercury una leggenda, un leone da palcoscenico in grado di divorare qualsiasi cosa attorno a lui, un'icona immortale capace di incidersi nella storia con la sua voce, i suoi atteggiamenti sopra le righe, il suo aspetto volutamente esagerato, utile a nascondere costantemente una timidezza viscerale, innata, che prendeva il sopravvento quando le luci del palco si spegnevano e la gente urlante faceva ritorno a casa.
Sono 27 gli anni senza Farrokh Bulsara, il vero nome di Freddie Mercury, l'uomo piegato dall'AIDS, dalla broncopolmonite, dal fato avverso e dai tempi. Fallibile come tutti, fragile e mortale. Non l'artista, la cui voce può risuonare all'infinito, la cui figura può prendere forma persino sul grande schermo, in un'operazione commerciale che mira a tenere viva la fiammella della memoria e del buon esempio.
È questo Bohemian Rhapsody, il ritratto di un mito sospeso fra arte e quotidiano, fra pubblico e privato, fra ciò che è eterno e cosa, invece, è tremendamente passeggero. Un'opera formata da due anime ben distinte, una prima che parla il linguaggio del grande pubblico, che non bada alla precisione storica e piega tutto al servizio del racconto di finzione, una seconda pregna di rispetto, devozione e impegno artistico, ma procediamo per gradi.

Il miglio in più

Le parole sono sempre molto importanti, all'interno di una recensione, e scegliere subito "operazione commerciale" per descrivere un film può essere rischioso per diversi fattori. In questo caso non lo diciamo certo con disprezzo, ogni prodotto artistico è anche commerciale (anche il più insospettabile, con le dovute eccezioni che confermano la regola), e Bohemian Rhapsody lo è nel modo più "hollywoodiano" possibile.
È costruito con un impianto semplice, un linguaggio accessibile a tutti, montato in modo classico e con fare lineare. Non ha praticamente mai velleità d'autore, né le insegue spasmodicamente, né cerca di imitarle; è il racconto romanzato della vita di un uomo che ha caratterizzato la recente storia della musica mondiale, il cui carisma ha spesso sovrastato le sue paure interiori, almeno pubblicamente.
Di Freddie Mercury, infatti, conosciamo solitamente il suo lato più sfrontato, più energico e leggendario, il film della Fox invece porta spesso la macchina da presa dietro le quinte del palcoscenico, fra gli studi di registrazione, fra le strade della città, le case vuote, buie e desolate. Riprende ciò che succede a fari spenti, tratteggiando Farrokh Bulsara oltre Freddie Mercury, di fatto una figura dalla doppia faccia come un moderno dottor Jekyll che diventa sovente il signor Hyde.
Una persona delicata e insicura, costretta a fronteggiare una famiglia di stampo (forse troppo) classico, a saltare da Zanzibar alla moderna Londra, a indagare l'amore un indizio alla volta fino a scoprire il tabù non richiesto dell'omosessualità. Bohemian Rhapdosy fa tutto questo affidandosi alla semplicità più spinta, parlando in modo diretto al pubblico ma senza mai percorrere "il miglio in più" utile a dare al progetto un aspetto più regale, universale (cosa che può essere sia un pregio che un difetto, a seconda dell'angolazione da cui si osserva).

La sensazione è di osservare un lavoro che si accontenta su più fronti, che evita volutamente di strafare sul piano tecnico per lasciare spazio alla figura gigantesca che racconta. E questo riguarda forse poco i piccoli grandi disastri produttivi che hanno investito il film, con il regista Brian Singer sostituito in corsa per problemi personali e con la 20th Century Fox; questo infatti ha intaccato relativamente i piani e lo stile del film, per stessa ammissione degli attori, già bene instradato e quasi terminato.
Rimanere su binari sicuri è stata una scelta voluta e ricercata dall'inizio, magari anche funzionale, ma che non ha permesso al lungometraggio di decollare per davvero, di trasformarsi in qualcosa di superiore e indimenticabile.

Prepararsi a dovere all'impossibile

All'aspetto più tecnico, si contrappone l'animo artistico: Bohemian Rhapsody si fa notare soprattutto per delle scelte di casting davvero notevoli, con i quattro Queen rappresentati alla perfezione. Se Joseph Mazzello è un John Deacon sempre fuori dal coro, e Ben Hardy un Roger Taylor tutto d'un pezzo amante della solitudine, Gwilym Lee è un Brian May ricalcato con cura sull'originale, che fra l'altro ha seguito in prima persona tutta la produzione.
È però Rami Malek (che abbiamo incontrato a Roma proprio per parlare di Bohemian Rhapsody) il vero motore pulsante dell'opera, com'è facile intuire: l'attore della serie TV di successo Mr. Robot ha svolto un lavoro encomiabile, di immedesimazione ma non solo. Prima di iniziare le riprese, ha passato oltre un anno e mezzo studiando canto e pianoforte, cercando di avvicinarsi il più possibile all'icona che avrebbe dovuto rappresentare.
Una missione, diciamolo, quasi impossibile, che mostra il fianco alla critica facile e gratuita, vista la statura artistica di Freddie Mercury e il suo carattere esplosivo sul palcoscenico - al di là della mera voce, autentico dono divino che nessuno può imitare davvero. L'artista americano di origini egiziane ha affrontato il progetto pienamente consapevole di tutto questo, entrando negli abiti di scena con reverenziale rispetto, con l'idea di non scimmiottare ma omaggiare il più possibile.
Proprio alla luce di questo, e della difficoltà di base del ruolo, pensiamo abbia fatto un piccolo miracolo, riuscendo a donare energia e sentimento a un personaggio impossibile da riprodurre in toto, cogliendo e proponendo molte delle sue sfumature. Non c'è però solo il trucco e parrucco: Bohemian Rhapdosy è per forza di cose anche un film molto musicale, che spazia dalle fasi intime di creazione di alcuni dischi storici al Live Aid del 1985, dove i Queen suonarono oltre venti minuti - realizzando qualcosa di eterno.

Brian Singer e i suoi quattro attori principali hanno ricreato l'esibizione nella sua interezza, nei minimi dettagli, girandola "in presa diretta" senza tagli e con decine di camere attorno al palco, trasformando il film in un autentico concerto e la sala cinematografica in uno stadio.
Un lavoro encomiabile ed emozionante, che di certo rende soltanto un'idea di ciò che è accaduto davvero il pomeriggio del 13 luglio 1985 al Wembley Stadium, ma lo fa con estrema passione - aiutandosi con green screen, effetti visivi e il supporto del vero Brian May a bordo palco.
La musica dei Queen aiuta così a dimenticare una messa in scena di stampo forse troppo classico, e una narrazione a tratti imprecisa rispetto alla storia, per un progetto esageratamente lineare che nasconde però momenti di grande intensità. Che mette "a nudo" una leggenda, la spoglia del suo mantello e della sua corona per lasciarla con la propria fragilità, a fronteggiare problemi familiari, d'amicizia e di cuore.

Bohemian Rhapsody A Bohemian Rhapsody manca certamente "il miglio in più", quello scatto necessario a trasformare un classico biopic in qualcosa di più universale. Sul lato tecnico ci si accontenta dell'indispensabile, lasciando più spazio all'arte, alle interpretazioni del cast e alla musica dei Queen - che aiuta a sorvolare su difetti più e meno marcati di sceneggiatura e imprecisioni storiche. Chi invece rappresenta un pregio è Rami Malek, che ha messo nel progetto corpo, voce e anima, avvicinandosi all'impossibile ed esponendosi con coraggio a critiche di varia natura. È grazie a lui che questo ultimo lavoro 20th Century Fox gode di momenti di grande intensità, capaci di smuovere qualcosa nel pubblico che conosce meno Farrokh Bulsara rispetto a Freddie Mercury. L'uomo oltre la leggenda, dunque, che una volta di più si fa icona ed esempio.

7

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