Recensione Blue Jasmine

Il cinismo impera sovrano nell'ultimo film del prolifico Woody Allen

Recensione Blue Jasmine
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La bella Janette (autoribatezzatasi al ben più sofisticato e upper-east-side Jasmine) è ben oltre l'orlo di una crisi di nervi. Falliti (una volta smascherate le truffe plurime dell'adorato marito Hal) il suo matrimonio e la sua vita da multimilionaria, la donna (una inquieta Cate Blanchett) sarà infatti costretta a lasciare Park Avenue e la sua invidiata collezione di calzature Vivier per trasferirsi a San Francisco come ospite presso il modestissimo appartamento della sorella (adottiva) Ginger (la sempre brava Sally Hawkins), una commessa senza grandi aspirazioni lavorative né (tantomeno) sentimentali. Insieme a Jasmine, a ricordarle il glorioso passato di soldi e vita mondana spesi ‘a perdifiato', viaggeranno solo un set di gloriose valigie Vuitton recanti le sue iniziali. Sempre più in preda al crollo psichico causato dallo sfacelo della sua ‘vecchia' vita e costretta a ‘tenersi insieme' ingollando a ritmi isterici pillole di Xanax sciolte nel Martini, la donna giungerà stravolta in casa di Ginger, ma determinata a riacciuffare (a ogni costo) il suo vecchio status (quo), forse anche disposta a barattare ancora una volta i suoi ‘ideali' con la realtà. Illuminata dall'idea di ‘spendere' il suo buon gusto seguendo un corso di interior designer online, e affranta dalla consapevolezza di non avere nessuna esperienza con pc e affini, la donna cederà dunque all'umiliazione di fare la segretaria presso uno studio dentistico, per potersi così pagare i vari ‘corsi' che la separano da una nuova lei, professionista indipendente. Durante la permanenza in casa della sorella non mancheranno comunque le occasioni per tornare sui distinguo del passato, dove Ginger (quella con i geni peggiori) era stata costretta a prendere ciò che passava il ‘convento della vita', mentre Janette (quella con "i geni buoni") aveva potuto (senza remore) puntare al massimo, delegando il proprio successo ai ‘mezzi' di un marito straricco. Un obiettivo infine raggiunto al caro prezzo di compromessi umani e relazionali da cui non sarà poi possibile - in alcun modo - redimersi.

Così è, se vi piace

Accolto fin troppo bene dalla critica, l'annuale incontro con il prolifico Woody Allen promette di essere una sospensione (temporanea visto che il prossimo film sarà ambientato nuovamente in Francia) dalle commedie europee degli ultimi anni, che hanno altresì generato (fatta forse eccezione per Midnight in Paris) un discreto scontento soprattutto tra i fan del prolificissimo regista americano. Blue Jasmine, oltrepassato dunque il filone ‘cartoline delle città' durato tre episodi (Barcellona, Parigi, Roma), ritrova intatti e nella loro massima pienezza quei temi di fallimento, cinismo e depressione congeniti alla natura umana e adattati a piccoli nuclei relazionali che sin dagli esordi hanno maggiormente interessato l'Allen antropologo ancor prima che regista.

Al centro delle vicende una protagonista di ‘stevensoniana' memoria, da un lato bella e luminosa interprete di sé stessa, dall'altro oscura vittima dei propri ‘vuoti' ideali. Attraverso l'interpretazione di una Cate Blanchett instabile e mutevole, odiosa e irritabile, Allen trasla e convoglia nella sua Jasmine la summa di tutte le caratteristiche negative dei suoi personaggi femminili unendola alla foga di una donna dal super-io che è forse tra i più strabordanti della sua intera filmografia. Eppure, nella decostruzione operata dal regista attraverso il suo alter ego femminile, l'apparato narrativo non sembra all'altezza della grandiosità del proposito e l'utilizzo di uno schema semplice (forse addirittura superficiale) che tratteggia senza mezzi termini una società di buoni e cattivi, ricchi e poveri, non serve a dovere quello che dovrebbe essere il sottotesto fortemente drammatico (e ricercato) del film. Perché, va detto, al di là di quella che può sembrare ancora una volta la classica ‘veste' da commedia, Blue Jasmine è forse uno dei film più drammatici di Allen, dove la via di fuga, di salvezza (da sé stessi) non è neanche marginalmente contemplata.

Blue Jasmine in un tram che si chiama desiderio

Bastano poche scene del prologo della storia per capire come l'ultimo film di Allen sia di fatto la rivisitazione in chiave contemporanea di Un tram che si chiama desiderio, la frustrazione di fatali illusioni visitata attraverso il magma della moderna società liquida, fatta di incomprensibili ‘online' e tangibilissime truffe finanziarie. A sua volta, la Jasmine del titolo altri non è che la Blanche DuBois interpretata nel celebre film di Elia Kazan da una memorabile Vivien Leigh. Due film che nella loro similitudine rappresentano Delitti e castighi di due epoche a confronto, dove la leggerezza dello sguardo femminile s'infrange contro la brutalità di un mondo che (in ogni caso) non perdona le fragilità né tantomeno lo ‘spreco' dei propri talenti. Ma se da un lato Kazan dipingeva la sua antieroina in una società brutale avvolgendola in una follia lieve e (necessariamente) evasiva, Allen (assai più blando nella rappresentazione dell'auto-circuizione- e distruzione - femminile) ricrea un mondo con ben poche sfumature e che non riesce a spingersi oltre la lenta implosione della sua protagonista.

Non c'è il guizzo di tanti altri suoi lavori, né quella precisione nei dialoghi capace da sola di creare un contesto con cui confrontarsi, al quale affezionarsi. E il carattere del film nasce e si chiude infine in un confronto tutto al femminile tra due sorelle legate a ‘ideali' opposti ed ugualmente ‘fallite', mentre sullo sfondo (immobile) si agita un mondo maschile fatto di truffatori, violenti, fedifraghi compulsivi e uomini così effimeri da essere al limite del miraggio, eppure inesorabilmente inseguiti. L'apparenza condannata dal film ne schiaccia (paradossalmente) i contenuti mentre il cinismo alleniano è qui al suo apice, in un luogo filmico dove la speranza è sempre la prima a morire.

Blue Jasmine Al suo annuale appuntamento con il pubblico, Woody Allen mette in campo Blue Jasmine, uno dei suoi film più cupi e (ideologicamente) più drammatici. Ma nell’evidente ‘ripercorrere’ le orme di Un tram che si chiama desiderio, Allen costruisce tutto il film attorno alla sua (pur brava) protagonista, dimenticando di osservare con maggiore pregnanza ciò che la circonda e (di fatto) la rende così effimera. Ne consegue un film che non riesce a coinvolgere e/o stupire a sufficienza. Un risultato che lascia l’amaro in bocca e un generale senso di incompiutezza e che appare addirittura assai deludente se si tiene conto del cast e delle capacità (psic)analitiche che ha dimostrato di possedere il geniale Allen in quasi cinquant'anni di carriera.

6

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