Recensione Blood Story

Il punto di vista americano sull'horror svedese che ha affascinato il mondo.

Recensione Blood Story
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Di film sui vampiri ormai potremmo dire di averne davvero la nausea. Negli ultimi anni il cinema contemporaneo è stato dissanguato da queste creature notturne che sono salite alla ribalta sotto svariate forme: dal teen romance di Twilight, alla violenza sessuale di True Blood, correlati da numerosi cloni cine-televisivi come The Gates o The Vampire Diaries. Che gli Studios continuino a sfruttare il fenomeno creando nuovi punti di vista della storia è commercialmente comprensibile, ma il pubblico ha davvero bisogno di altre storie di vampiri sul grande schermo? Se si tratta poi di un remake, come quello di Lasciami Entrare del 2008, la questione si fa ancora più delicata. Che effetto può avere la patinata macchina hollywoodiana su una pellicola di origine svedese che si è conquistata l'apprezzamento di pubblico e ciritica grazie alla totale immersione poetica della narrazione? La risposta è Let me In, finalmente giunto a noi col titolo di Blood Story.

Vittime

Owen (Kodi Smit-McPhee) è un bambino di dodici anni con problemi di socializzazione: i suoi genitori stanno divorziando, a scuola è continuamente vittima di bullismo e ha una nascosta passione per i serial killer. Quando all'improvviso nel suo condominio si trasferisce una strana bambina, pensa che le cose possano finalmente cambiare. Abby (Chloe Moretz) è schiva e riservata e proprio per questo, pur dichiarando apertamente di non poter essere sua amica, sembra la compagna di giochi perfetta. Tra i due si instaura presto un rapporto di complice amicizia. Ma Abby non è come tutte le altre ragazzine della sua età...

Mondi a confronto

Dopo il suo esperimento cinematografico chiamato Clovefield, Matt Reeves si misura nuovamente con un film di genere atipico, che nasconde le sue ragioni d'essere in profondità. È normale fare paragoni sul lavoro di Reeves in Let me In e quello di Tomas Alfredson in Lasciami Entrare. Entrambi tratti dal libro di John Ajvide Lindqvist, i due film scelgono lo stesso susseguirsi di scene per raccontare l'evolversi del rapporto tra questi due difficili ragazzi. Mentre il film svedese sceglie, edulcorando il racconto originale di tutta la violenza più esplicita, di puntare sulla poesia del rapporto e analizzando in maniera introspettiva anche una condizione animalesca come il vampirismo, il lavoro di Reeves si assesta su ritmi e ambientazioni molto più americane. Omicidi, attacchi, esagerati spargimenti di sangue si dipanano senza paura davanti agli occhi dello spettatore e Abby si trasforma, sia a livello fisico che intimo, continuamente, passando dal piano di ragazzina a quello di vampiro nel tempo di uno sbattere di ciglia. Tutto diventa quindi più visivamente esplicito, più sensazionalista. Non si può stabilire quale dei due linguaggi sia il migliore: si tratta di due modi simili, ma che adoperano ritmi diegetici differenti, di focalizzarsi sullo stesso disagio. Fondamentale nel processo di paragone tra i due lavori è ricordarsi che Let me In fondamentalmente non è il remake di Lasciami Entrare. Reeves ha infatti iniziato a lavorare alla pellicola quando il film svedese era ancora in post-produzione. Il confronto andrebbe quindi traslato tra opera letteraria e cinematografica.

Atmosfere

Let me In è inquietante, anestetizzante, travolgente. Che voi siate lo spettatore dell'ultimo momento attratto dal clamore del progetto o uno degli ammiratori dell'opera svedese del 2008, non potrete fare a meno di lasciarvi trasportare da una costruzione cinematografica tecnicamente funzionale. Reeves dimostra ancora una volta di saper giocare molto bene con le ansie del genere umano, nascondendo e mostrando a ritmi alterni violenza e intimità, in un susseguirsi di immagini che affascina fin dal primo momento. Le atmosfere sono isolate e tranquille, di un posto che, nonostante sia ben collocato sia nel tempo che nello spazio, potrebbe tranquillamente non esistere. Ai fini della storia è importante solo che quel cortile sia lì in quel momento e sia palcoscenico della nascita di questa reciproca dipendenza tra Owen e Abby. Tutto è reso d'impatto grazie anche allo score musicale, in grado di conturbare e angosciare lo spettatore anche a occhi chiusi (proprio come le musiche de L'Esorcista avevano traumatizzato il regista durante la sua infanzia). Le musiche originali di Michael Giacchino, premio Oscar per UP, impostano perfettamente il tono emotivo del film e si mescolano senza sbalzi alle musiche scelte per rievocare le ambientazioni anni Ottanta della storia.

Giovani stelle

L'intero apparato registico, visivo e acustico sarebbe stato nullo senza due attori convincenti a interpretare i due fulcri della storia. Owen e Abby sono due dodicenni estremamente complessi ma apparentemente molto semplici. Bambini sì ma con alle spalle una tormenta di emozioni e problematiche che inevitabilmente affiorano sui loro giovani volti. Qualsiasi sguardo più scanzonato, movimento più leggero, risata più acuta avrebbe reso la loro esistenza sullo schermo esagerata, poco accurata e non credibile. Chloe Moretz e Kodi Smith-McPhee, nonostante la loro giovane età, regalano invece un'interpretazione magistrale dei loro personaggi. Tormentati interiormente eppure costantemente innocenti, i due ragazzini conquistano lo spettatore e riempiono la scena con la loro sola presenza. Non esiste un solo momento in cui le loro emozioni, i bisogni, le paure o le reazioni appaiano inspiegabili, esagerate o ingiustificate e l'affezione verso loro aumenta gradualmente con il rafforzarsi del rapporto di amicizia, fino a trasformarsi in reciproca dipendenza.

Blood Story Let me In/Blood Story va visto e giudicato come film tratto dal romanzo Lasciami Entrare di John Lindqvist e non in quando remake dell’omonimo film svedese. In questo senso si tratta di una pellicola appassionante, travolgente e ben confezionata sotto tutti gli aspetti cinematografici. Inquieta e affascina con un mix discreto di violenza, azione e poetica, raccontando le difficoltà del crescere e di trovare qualcuno con cui sentirsi a proprio agio attraverso la funzionale metafora del vampirismo.

7.5

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