Blade Runner 2049, la recensione: il futuro è donna e d'autore

Denis Villeneuve riesce nell'impresa di omaggiare il passato parlando un linguaggio attuale, guardando al futuro pur rimanendo saldo alle radici.

Blade Runner 2049, la recensione: il futuro è donna e d'autore
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Provate a fare un passo nella nebbia fitta. Poi fatene un altro, un altro ancora, con lentezza, facendo attenzione alla terra su cui posate i piedi. Il tutto guardandovi attorno con fare sospetto, ignari di cosa possa accadere ma pronti a qualsiasi evenienza, anche al peggio. Davanti a voi la desolazione più profonda, putridi ammassi di immondizia e fumi nauseabondi, i resti di un mondo che ormai vive soltanto insieme al ricordo dei vostri avi. Questo lontano dalle metropoli, in quelle che un tempo erano considerate rigogliose campagne coltivate. Nelle città i fumi sono ancora più spessi, la pioggia acida si abbatte violenta e rancida sulla vostra testa e gli unici colori provengono dai grandi schermi elettronici al servizio della pubblicità. Ologrammi nel migliore dei casi, pronti a materializzarsi ad un palmo del vostro naso per offrirvi bibite gassate, noodles cinesi di dubbia natura, amore a buon mercato, sempre che abbiate un cuore e un'anima per amare. L'agente K non ha nulla di tutto questo, è un replicante di eccellente fattura, una versione legale e approvata che non a caso presta servizio nella polizia di Los Angeles. Nella sua sterile vita ha un solo compito, oltre a nutrirsi di pietanze e manicaretti virtuali: dare la caccia a vecchie unità in disuso, androidi banditi dalla società che meritano soltanto la distruzione. L'anno è il 2049 e chi fa un mestiere simile viene ancora chiamato Blade Runner.

Passato e Futuro

Parliamo di un lavoro rischioso all'estremo, i vecchi replicanti sono considerati dei rivoltosi, dei soggetti violenti pronti a tutto pur di mescolarsi con i loro simili. Molti di loro vivono isolati, altri perfettamente integrati con i numeri di matricola ben nascosti a chip e sensori indiscreti; scovarli è un'arte, una sinfonia, un talento innato che - nonostante tutto - non si può innestare tramite software. Un incarico dinamico, mai banale, che anzi riserva spesso delle sorprese - non sempre piacevoli certo. È proprio un lampo improvviso a scuotere la carriera del giovane K, la scoperta di un segreto vecchio di trent'anni che cambia violentemente il corso regolare degli eventi - e mette a soqquadro l'intero quartier generale del LAPD. Trent'anni prima significa 2019, anno in cui Ridley Scott ha deciso di muovere i fili del Blade Runner per eccellenza, quel Rick Deckard ossessionato dal suo lavoro e dal suo destino. All'epoca il conflitto fra umani e replicanti poneva le sue basi nella conquista della libertà, con le macchine in rivolta poiché stanche di essere schiave dei propri creatori. Ora i tempi sono cambiati, così il punto di vista: in ballo c'è qualcosa di ancora più grande, la supremazia totale di una specie sull'altra. Gli androidi più avanzati, ancora colmi di rancore, hanno serie intenzioni di sopraffare i ridicoli e deboli umani, da predatori divenuti prede.

Io chi sono?

Ciò che non è cambiata è la domanda cardine di tutta l'universale esistenza: chi siamo realmente, noi abitanti del mondo e dell'extra mondo? Su questo fronte le carte si sono ulteriormente confuse, poiché si è annullato il confine fra uomo e macchina sintetica. Per quanto si voglia cercare la risposta nel futuro, la verità risiede soltanto nel passato, motivo per cui il confronto è continuo e costante, fuori e dentro lo schermo. Inevitabilmente Denis Villeneuve guarda al lavoro di Scott come inesauribile e inestimabile fonte d'ispirazione, Ryan Gosling raccoglie a piene mani la pesante eredità lasciata da Harrison Ford, l'agente K affronta a volto scoperto l'invecchiato Deckard, spostando continuamente l'ago del tempo. L'ombra del passato però non è mai prevalente, non riesce mai a sopraffare il contesto: i fatti del 2049 godono di una naturalezza e di una forza del tutto autonome, lo stesso impianto visivo è completamente differente rispetto al futuristico 2019. Parliamo di un mondo del tutto desaturato, che ha strappato a uomini e macchine ogni sfumatura, un micidiale mix fra i mondi radioattivi della saga videoludica di Fallout e i panorami desertici di George Miller e Mad Max. Una perfetta metafora materiale che racconta in immagini la deriva dell'umanità, ormai senza controllo e orizzonte.


Il futuro è donna

Controllo e orizzonte che l'agente K cerca di guadagnare con forza e consapevolezza, diventando il più umano fra i replicanti. In lui si instilla un dubbio feroce che lo rende da una parte più determinato, dall'altra più vulnerabile. Deckard, dopo trent'anni di solitudine ed esilio, è invece indurito all'estremo, incapace a fidarsi di chicchessia nella sua dorata gabbia nostalgica: è insomma il più replicante degli umani. Fra questi due poli opposti e complementari, che compiono percorsi paralleli ma ugualmente colmi di sofferenza, si incastra con ferocia Neander Wallace, uno Jared Leto cieco e solenne che ha coscienza solo per il futuro della specie sintetica. Personaggi dal peso notevole, imprescindibile, ai quali sono contrapposti ruoli femminili dalle tinte più vivaci, che trasformano la luce in un fascio di colori esattamente come fa un prisma di vetro, pur essendo spesso replicanti o del tutto virtuali. Nel loro ventre il regista canadese ripone la speranza del mondo, apre un dialogo fra genitori e figli che ha radici profonde e dolorose. Regala alle sue donne il potere di amare, di sacrificarsi, di combattere, di comandare, di ordinare e distruggere. L'oscura Freysa ha nelle mani il seme della rivoluzione, Ana Stelline conserva nel cuore la purezza e il candore di una bambina che non vuole invecchiare, e se Mariette è un perfetto involucro, l'ologramma Joi è la perfetta anima, solo insieme infatti possono sincronizzarsi e diventare umane, reali. Il Tenente Joshi, una Robin Wright di ferro, è invece il braccio inflessibile della legge, sempre pronto ad ogni evenienza pur di preservare la natura umana; il confronto con la spietata Luv, una Sylvia Hoeks affascinante e brutale, completa una tavolozza variegata ma estremamente ordinata, dove ogni cosa trova il suo posto e non è mai di troppo.

L'universo nelle mani di Roger Deakins

Attori e attrici però possono fare ben poco senza un ambiente di grande impatto in cui muoversi. Villeneuve ha chiamato alla sua corte un premio Oscar come Dennis Gassner in stato di grazia, che riempie (o svuota) ogni scenografia di dettagli preziosi e asfissiante nostalgia, poiché pesca dal passato tutti elementi aridi, tristi, spesso arrugginiti e corrosi. È però il direttore della fotografia Roger Deakins a compiere il miracolo più grande: la sua luce, i suoi colori netti, le sue camere fondono alla perfezione storia e sguardo del regista, diventando capolavoro (la quattordicesima candidatura agli Oscar del DOP inglese è praticamente già andata a segno). Non vi è una sola immagine fuori posto, ogni quadro è formato da disperata poesia e perfezione stilistica, in netta e voluta opposizione rispetto al vuoto e alla desolazione delle ambientazioni. Con Deakins ha lavorato a doppio filo anche un comparto VFX impeccabile, che fa notare più di ogni altra cosa l'incredibile abisso che separa il 2049 dal 2019 di Scott. Inoltre la massiccia presenza di effetti visivi non deve ingannare, la California del futuro non ha perso in alcun modo quell'aura artigianale di un tempo - c'è infatti meno CGI di quanto si creda.

Guerre e fazioni

In ogni caso il confronto diretto fra l'opera originale e questo sequel deve esistere solo fino a un certo punto, sono prodotti più complementari che opposti. Nel lavoro di Villeneuve c'è un rispetto profondo del primo Blade Runner, eppure questo non ha impedito al 2049 di avere una propria identità, un proprio linguaggio, figlio ovviamente del nostro tempo, non del 1982 - nel bene e nel male. La Los Angeles distopica è cambiata in tutti questi anni, come ogni altra metropoli o Paese nella realtà avrebbe fatto - pensate all'Italia del 2017 e a quella di 35 anni fa.

Nonostante questo il fil rouge fra un film e l'altro è presente e forte, eppure per nulla appesantito o forzato. Prendere le parti di un titolo o dell'altro significherà non aver assorbito nulla dal mondo di Villeneuve. Parliamo di un pianeta senza più natura, già devastato in ogni aspetto e vivo solo nel cemento e nei rifiuti, e sia uomini che macchine pensano solo a nuova distruzione, a una nuova guerra totale in grado di sancire la prevalenza di un'unica fazione. Il percorso dell'agente K mira invece a tutt'altro, a evitare quel conflitto che porterebbe solo ulteriore caos, non pace. Fra le righe il messaggio di non belligeranza arriva fino a noi spettatori, sempre pronti a invadere le opinioni altrui. Esiste invece, sempre e comunque, un bene superiore al di là delle apparenze, in Blade Runner 2049 come nella realtà. Ad esempio la fitta trama e le immagini sovrannaturali di Roger Deakins non devono distrarvi dalla colonna sonora firmata Jóhann Jóhannsson e Hans Zimmer, che si sviluppa nelle pieghe profonde del film. Gli archi cupi dei due compositori sono un contrappunto musicale suggestivo ed estremamente potente, con venature elettroniche provenienti direttamente dall'iperspazio.

Blade Runner 2049 Denis Villeneuve ha dunque messo in scena un piccolo miracolo, un evento cinematografico in piena regola che mescola alla perfezione autorialità e azione, pronto probabilmente a segnare la nostra generazione esattamente come ha fatto Ridley Scott nel 1982. Fare un confronto diretto, elemento per elemento, è quanto di più sbagliato si possa fare. Parliamo di un'opera epocale figlia del nostro tempo, in cui ogni elemento combacia con gli altri e funziona a dovere. Non solo, molti dettagli arrivano direttamente dal passato, assorbiti nel nuovo tessuto esattamente come un vecchio replicante viene aggiornato e rimesso a nuovo. Proprio grazie a questo, alla scrittura eccezionale di Hampton Fancher e Michael Green, Blade Runner 2049 parla un linguaggio nuovo, tutto suo, che omaggia le radici pur essendo incredibilmente attuale e artigianale. L'intero cast gira al massimo regime, fra tutti però spicca un Ryan Gosling che cambia e genera emozioni a comando, anche laddove non potrebbe. Il suo volto segnato, spesso insanguinato, è filmato in maniera magistrale da Roger Deakins, che allo stesso modo consegna alla storia del cinema immagini e ambientazioni uniche, poetiche e disperate. Il suo nome è praticamente già scritto sull'Oscar 2018 per la migliore fotografia, neppure la scaramanzia potrà opporsi. Ammirare su grande schermo un'opera di tale portata è praticamente obbligatorio, non soltanto consigliato, che siate replicanti o meno.

9

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