Fosse stato prodotto una decina di anni fa, Beirut sarebbe uscito al cinema. Le carte in regola per interessare ed entusiasmare un certo nugolo di appassionati dello spy thriller le ha infatti tutte, questa nuova creatura diretta da Brad Anderson, anzi avvince e si sviluppa in mondo sofisticato ma non inutilmente contorto come faceva ad esempio il comunque buono Spy Game di Tony Scott nel 2001, ma i tempi sono cambiati. A un modello distributivo quasi esclusivamente cinematografico si sono infatti accostati colossi dello streaming online come Netflix, che si sono ormai sostituiti come piccoli o medi canali di scarico di prodotti che, senza troppo girarci intorno, il pubblico non desidera più vedere in sala. Il cinema, l'esperienza comunitaria, è ormai riservata a pellicole di una certa sicurezza remunerativa, quali blockbuster, film di grandi autori o titoli generici d'intrattenimento, anche se questo non esclude che molti producer tentino ancora quella strada per diversi progetti, rimettendoci puntualmente.
Meglio andare sul sicuro e affidarsi all'egida di piattaforme con milioni di iscritti in tutto il mondo: si perde sicuramente di meno e ci si guadagna di più in termini creativi e produttivi. Ciò non toglie che la metà dei titoli originali Netflix non siano propriamente imperdibili (ma anche di Hulu e Amazon Prime), eppure nell'altra metà c'è una gamma qualitativa tutta particolare, mai al di sotto della sufficienza, lontana dal banale e di discreto interesse. E Beirut, in questa seconda metà, ci rientra con tutte le scarpe.
Una casa senza proprietari
Da Tony Gilroy, uno dei padri dello spy thriller post XX° secolo, non c'era comunque da aspettarsi di meno. Sue sono le sceneggiature della prima trilogia di Bourne, la regia dello spin-off con Jeremy Renner e la totale curatela di film come Michael Clayton, State of Play e Duplicity. È insomma un mestierante esperto nel genere, che ha contribuito addirittura a riformare con l'avvento degli anni 2000, e con Beirut firma una delle sue opere più politiche e critiche contro le mire americane nel Vicino Oriente. Se dovessimo accostare il film a qualcosa, lo accosteremmo a un Green Zone con meno azione e un taglio più drammatico o a uno Zero Dark Thirty con meno ambizioni. La sintesi è che funziona più o meno tutto, in Beirut, del resto che sia un titolo ben pensato lo si capisce già dall'inizio.
Ci troviamo in Libano nel 1972, terreno-incubatrice della Guerra Civile che sarebbe poi scoppiata da lì a qualche anno. Mason Skiles è un diplomatico americano interpretato da un sempre bravo Jon Hamm, qui in veste Don Draper con meno fascino, che vive proprio a Beirut insieme alla moglie libanese, Nadia, e a Karim, un ragazzino di 13 anni senza famiglia che ha deciso di accogliere in casa sua e che tratta come un figlio. Secondo Skiles, Beirut è come "una casa senza dei proprietari, dove gli inquilini hanno in comune solo duemila anni di faide, ritorsioni e omicidi". Parla di musulmani, cristiani e palestinesi, questi ultimi rappresentati nella loro frangia più estremista dalla OPL (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) e interessati solo a distruggere i vicini israeliani, con i quali l'America è in buoni rapporti diplomatici. Il sangue versato alle Olimpiadi di Monaco di quell'anno dal gruppo palestinese Settembre Nero grida ancora vendetta, e la CIA avrebbe identificato nel piccolo Karim il fratello di uno degli attentatori, il più importante, Rafid Abu Rajal.
A Mason viene chiesto gentilmente di cooperare e consegnare il ragazzo durante una festa in casa sua, ma Skiles dopo aver parlato con Karim è convinto che il ragazzo non c'entri affatto con gli attentati. Poco importa, però, perché improvvisamente dei colpi d'arma da fuoco risuonano all'interno della casa: è Rafid con un gruppo di miliziani venuto a prendere il fratello. Per fermare la fuga di uno dei miliziani, un caro amico di Mason, Cal, spara a uno dei terroristi, ma quest'ultimo premendo il grilletto rilascia una raffica di colpi nell'aria, colpendo e uccidendo Nadia.
Il prologo è perfettamente introduttivo e dà le basi di tutti i successivi declini: quello di Mason, che ritroviamo dopo dieci anni come alcolizzato avvocato mediatore a Boston; quello del Libano, stretto nella morsa di una sanguinosa Guerra Civile; quello di Karim, trasformatosi da tenero ragazzo a spietato terrorista, come dice lui "dalla notte al giorno". Gilroy presenta e distrugge in dieci minuti la vita dei suoi protagonisti e la serenità di un intero Paese, restando fedele alla triste realtà della guerra. Da Mason a Cal fino ad arrivare a Karim, tutti si ritrovano infatti nel 1982 a dover fare i conti con i propri demoni, che non possono essere annegati nell'alcool o uccisi da una lotta per una causa estremista.
Non possono essere sconfitti ma costantemente ignorati sì, eppure il problema si fa serio quando questi demoni incrociano di nuove le proprie strade. Un giorno, infatti, a Mason viene chiesto di tornare in Libano senza troppe spiegazioni, "per parlare di diplomazia e mediazione all'Università di Beirut", anche se sa perfettamente che si tratta di altro. Decide di andare, per scoprire una città radicalmente cambiata dai bombardamenti e dalla guerra civile tra cristiani e musulmani, con la complicità della OPL. La CIA continua il suo lavoro ed è stata proprio l'Agenzia a volerlo lì, dato che i rapitori di un membro importante hanno fatto espressamente il suo nome per la mediazione dei negoziati.
Realtà
Beirut è un film che non risponde a nessuna esigenza particolare e che si muove con passo regolare tra le macerie dell'animo umano e tra quelle della guerra nel Vicino Oriente. Non affretta e non anticipa l'arrivo, ma la strada che percorre è una sola, precisa, e durante il viaggio anche noi prefiguriamo la sua meta, nonostante poi uno o due plot twist si mettano sul cammino per renderlo leggermente più indeciso. È un thriller d'altri tempi che guarda al classicismo con una scrittura spesso raffinata, fatta di scambi di battute intelligenti e di sviluppi strategico-politici ben calibrati e quindi riusciti. Gilroy ci insegna che rimanere fedeli all'economia della storia ripaga, anche senza regalare grosse sorprese. Lavorare di rifinitura aiuta un progetto che si basa quasi tutto esclusivamente sulla forza del racconto. Non che sia perfetto, Beirut, perché deve fare i conti con una regia poco ispirata e interpreti co-protagonisti solo funzionali allo sviluppo narrativo, importanti ma marginali nel coinvolgimento emotivo del pubblico.
Ci sentiamo però di promuovere con sincera e discreta stima questa ultima fatica di Brad Anderson, nella quale si miscelano egregiamente realtà e finzione, proprio come dice il Donald Gaines di Dean Norris a Mason nell'invito a glissare su certi fatti: "Sei qui per parlare all'Università? Realtà. Ci siamo incontrati? Finzione". Ecco: Beirut è uno spy thriller innovativo, forte di una storia ricca di colpi di scena e avvincente? Finzione. È però un racconto coeso, preciso, scritto a più riprese in modo raffinato da Tony Gilroy e ben interpretato? Realtà. Ora scegliete voi cosa raccontarvi.
Beirut è uno spy thriller d'altri tempi, forte di una scrittura spesso raffinata e di una grande interpretazione di Jon Hamm. Tony Gilroy firma una sceneggiatura sicuramente interessante ma priva di grandi svolte narrative, precisa nelle intenzioni, molto formale nello svolgimento. Dopo un bellissimo prologo e una fase di re-introduzione dei protagonisti, insomma, si capisce dove si vuole andare a parare, ma non per questo Beirut si può definire poco riuscito. Il film resta infatti fedele fino alla fine a un racconto che si muove tra le macerie della guerra e dell'animo umano, tra finzione romanzata e realtà storica, in un Paese che è come una grande casa senza proprietari dove si muovono più coinquilini, ognuno con un proprio obiettivo che viene poi ben individuato all'interno della narrazione. Se avete apprezzato Green Zone, Zero Dark Thirty o Spy Game, questo è il titolo Netflix di giugno che fa per voi.