Recensione Beasts of No Nation

Cary Fukunaga rinnova i suoi voti nuziali con l'estetica e si riconferma uno dei registi più promettenti del panorama attuale, ma nel raccontare l'orrore dei bambini soldato perde il focus e finisce per strafare.

Recensione Beasts of No Nation
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"Ho visto cose terribili e ho fatto cose terribili", racconta un ragazzino ad una psicologa. Nei suoi occhi la consapevolezza, la calma. Negli occhi di lei la voglia di capire ed aiutare, anche se non può, perché quello che ha davanti non è più un bambino ma per sua stessa ammissione "è già vecchio". In un villaggio dell'Africa occidentale a quel bambino per poco non bastano le dita delle mani per contare gli anni ma ha già visto e già fatto più di quanto quella donna riuscirebbe a capire: ha visto i suoi genitori separarsi, ha visto i suoi familiari disperdersi e morire, ha visto nell'orrore della guerra l'unica via di scampo da una morte certa, diventando carnefice dopo esser stato vittima, ed usando quelle dita con cui contava gli anni per premere grilletti e disinnescare bombe. Ago, tre lettere per identificarsi e nient'altro se non una storia che caratterizza lui e fin troppi bambini soldato, depredati della loro innocenza, della loro immaginazione inscatolata in giochi innocenti, delle loro madri lontane in cui trovano un ricordo a cui pregare quando perfino Dio sembra smettere di ascoltarli. Sono tutti lì, davanti alla macchina di Cary Fukunaga, che mette in scena quell'orrore che in Beasts of no Nation è, davvero, bestiale. E non risparmia nessuno, nemmeno lo spettatore, indebolendolo a colpi di immagini e sfiancandolo fino a posarlo davanti agli occhi di Agu assieme alla psicologa. Che ha visto cose terribili e fatto cose terribili, tutte ora nella memoria e nella consapevolezza di ognuno di noi.

Tra il manierismo e l'orrore, senza vie di mezzo

Si può raccontare un film intero, una realtà drammatica, un orrore devastante ed una dolorosa bellezza solo attraverso gli occhi di un bambino? Decisamente sì, ma Cary Fukunaga sembra dimenticarlo e perdersi intorno a tutto ciò che gira intorno al suo piccolo ma straordinario protagonista, tornando alla semplicità dei suoi occhi troppe poche volte ed in maniera davvero coinvolgente solo nelle battute finali. Per il resto del film ci si fregia di un estetismo potente, di registri stilistici incalzanti, di manierismo e di formalità di cui il materiale non necessita. Si ha l'impressione che il regista abbia voglia di fare troppo lì dove il troppo è già davanti a lui, perdendosi e facendo perdere il suo pubblico in lunghi piani sequenza, cromatismo spinto, dovuto citazionismo. Elementi che rendono il film esteticamente pregevole e dimostrano l'indubbia stoffa di Cary Fukunaga, già ampiamente dimostrata (e premiata) nella prima stagione di True Detective.

Vedere il mondo negli occhi di un bambino

Se il regista spinge sull'estetica, il lavoro umano è tutto nelle mani dell'esordiente e giovanissimo Abraham Attah, straordinario nella sua interpretazione e vero cuore pulsante dell'intera pellicola. Nello spazio dell'arco narrativo Attah riesce ad operare un cambiamento incredibilmente potente che arriva dritto al cuore dello spettatore e rende quasi palpabili quegli orrori che il suo personaggio ha vissuto. La perdita dei genitori e dei fratelli, l'addestramento a soldato nelle file del Comandante dei ribelli (Idris Elba), il primo omicidio, gli abusi del Comandante su di lui e sugli altri bambini sono tutti lì, visibili più nei suoi occhi di quanto lo sarebbero stati sul suo corpo. A stargli vicino e supportarlo per la maggior parte della pellicola è proprio un freddo e spietato Idris Elba, personaggio agghiacciante che l'attore riesce a mantenere costantemente credibile, abbracciandolo senza mai cercare scuse per renderlo più umano quando di umanità, al suo Comandante, non ne è più rimasta. A loro Fukunaga lascia il compito di trascinare il film, rendendolo un ritratto umano di una tragedia e non una semplice cartolina del terzo mondo senza coinvolgimento: compito che assolvono, seppur in parte soffocati dall'ingombrante estetica e dall'eccessiva intenzione di voler raccontare tutto - forse troppo - in una sequenza di eventi che non lascia allo spettatore un minimo di respiro.

Beasts of No Nation Cary Fukunaga torna sul grande schermo, anche se solo in parte, grazie ad un’enorme produzione Netflix e dimostrando di essere indubbiamente uno dei registi più eclettici ed interessanti della sua generazione: con Beasts of No Nation rinnova i suoi voti matrimoniali con l’estetismo, ma non riesce a misurare la delicatezza del tema affrontato e finisce per strafare nel voler mostrare il troppo con il troppo, caricando eccessivamente lo spettatore e tralasciando la semplicità della componente umana, potente grazie ad Idris Elba ma soprattutto grazie al piccolo Abraham Attah, a dir poco straordinario.

7

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