Bardo Recensione: l'imperfetta follia di Alejandro Inarritu

Iñárritu nasconde i propri demoni in un protagonista diviso e costruisce un film onirico e spiazzante, anche se a tratti didascalico.

Bardo Recensione: l'imperfetta follia di Alejandro Inarritu
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Il gelo di dicembre sembra portarsi dietro un vento americano di grandi autobiografie apocrife perché, dopo esserci riempiti gli occhi con la commossa dedica alla propria famiglia ed a se stesso di un gigantesco Steven Spielberg (recuperate attraverso la lente di una macchina da presa la recensione di The Fabelmans), è tempo per Alejandro Gonzalez Iñárritu di scendere a patti con i propri dubbi esistenziali e declinarli attraverso una pellicola profonda e sentita.

Bardo, La Cronaca Falsa di Alcune Verità arriva tra i film Netflix di Dicembre 2022 e getta una luce intima su uno dei più grandi registi messicani di sempre, diviso tra una doppia cittadinanza che gli ha dato la gloria e l'amore nostalgico per la sua terra, una lotta interiore tra testa e spirito che matura attraverso un film allucinato e sognante. Non tutto appare perfettamente a fuoco in questo lunghissimo viaggio nel limbo di un artista, ma le emozioni che scuotono il regista vibrano attraverso lo schermo e trasformano la visione in un dolce delirio di onnipotenza.

Ripudiato dal mondo

È un mondo davvero strano quello che il documentarista Silverio Gacho (Daniel Gimenez Cacho) cerca di raccontare attraverso il suo sguardo attento, tra neonati che tornano nell'utero disgustati dal mondo appena conosciuto e le mire geopolitiche di una Amazon desiderosa di comprare un pezzo di Messico. Vagando in grandiose allucinazioni che spuntano come funghi ad avvelenare la nostra realtà, troviamo però i soliti contrasti tra il nord ed il sud del continente più ambito del mondo.

Nati dal bagno di sangue dei conquistadores guidati da Cortés, gli statunitensi digrignano i denti con i propri vicini meridionali e li azzannano sui temi dell'immigrazione, della criminalità ed anche della religione, dimostrandosi popoli culturalmente agli antipodi e impossibili da conciliare. Nel mezzo di questa battaglia furiosa tra una stirpe di vincenti e di eterni sconfitti c'è proprio Silverio, un giornalista che ha raggiunto una certa fama nel suo Messico natio, ma è diventato davvero celebre soltanto dopo essersi trasferito nei tanto odiati Stati Uniti, dove si è scoperto fine documentarista e voce rilevante.

Apprezzato dalle alte cariche degli USA per il suo lavoro di scoperta e divulgazione, Silverio è odiato in modo viscerale dai suoi vecchi compatrioti che vedono in lui un traditore ed un venduto: l'uomo non riesce più a nascondere le ferite causate dai frammenti del suo io, e cerca la pace personale e professionale in un Messico che ribolle di suggestioni e ricordi sbiaditi, un Paese dove ancora sanguinano i soprusi che qualcuno vorrebbe destinare all'oblio.

Ricordando Fellini

Iñárritu si nasconde dietro uno pseudonimo e una vita non interamente sua mentre imbastisce un racconto che parte dal dramma personale per arrivare alle tragedie storiche del Messico, collegando i dolori del suo documentarista alle privazioni di cui lui si è fatto artefice nel corso di una carriera brillante, ma sempre più a stelle e strisce.

Bardo è un'autobiografia spuria per il regista, un ritorno malinconico ed a tratti nostalgico verso le origini perdute del suo cinema, che cerca nell'onirismo quel punto di unione perfetto tra la sagacia di Birdman e il simbolismo di Amores Perros: il risultato è un dipinto raffinato, costruito sulle assurdità (vere o fittizie) della vita che si mescolano ai ricordi ma soprattutto ai timori. L'impostazione da sogno vede un parallelo nel nostro Fellini non solo per l'uso del cinema di sensazione, ma anche nella malcelata tristezza che circonda un Messico perduto per il suo autore, ormai troppo lontano dal suo essere statunitense, nonostante lo spirito ancora riesca ad acciuffare quella scintilla mistica che unisce i popoli del sud. Gli onori di Silverio si scoprono tradimenti quando torna alla sua madrepatria, e con essi riaffiorano i drammi personali e condivisi con la propria famiglia, mentre realtà e finzione si mescolano in questo gioco di prospettive che mette in discussione i confini del linguaggio filmico, facendolo affiorare a più riprese dall'inquadratura.

Durante gli splendidi piano sequenza costruiti da Darius Khondji , la macchina da presa si trasforma nel volto delle persone, nella camera di uno studio di registrazione, in una finestra da cui assistere ad un dramma sepolto. Le continue rotture della quarta parete testimoniano senza remore la grande finzione su cui si regge il cinema, e a loro si aggiungono pensieri che diventano voci fuori campo udibili anche in scena, mentre le critiche rivolte al documentarista vengono spente come si fa con un microfono che non si vuole più ascoltare.

Sentimenti e didascalismo

Il regista gioca con il mezzo comunicativo impostando un esilarante dialogo con lo spettatore, mettendo in bocca ai detrattori del documentarista le critiche rivolte ad Iñárritu e addirittura una sorta di recensione per lo stesso film che stiamo guardando.

Scherzando sul proprio ruolo e sul suo passato, in questa lunga conversazione con se stesso l'autore cerca di esorcizzare quei demoni che appaiono realmente dolorosi nel racconto apocrifo, una pellicola che nella sua ampiezza - probabilmente eccessiva - abbraccia temi quotidiani come la genitorialità diretta e subita, analizzandoli con una propensione al simbolismo evidente che per assurdo finisce col diventare didascalica, perdendo così la sua potenza immaginifica. Sarà stata forse un'ombra di timore a convincere infine il regista a smontare questa grande messinscena, perché una conclusione poco originale svuota di significati un'opera che si dimostra in ogni caso un'esperienza imperfetta e dissacrante, forte di un uso sublime del mezzo cinematografico sia dal vivo che in computer grafica. Graziato da una regia che imposta le sue inquadrature studiandole al millimetro, Bardo sfoggia tutta la sua conturbante bellezza con una fotografia al naturale che valorizza gli splendidi panorami del Messico, saltellando tra le messe a fuoco totali di scene incantevoli e i lunghi piano sequenza con una steadicam che vola come un fantasma tra i personaggi di questa fiaba.

BARDO, False Chronicle of a Handful of Truths I demoni di uno dei più grandi registi messicani di sempre vengono riversati in un documentarista fittizio da un Iñárritu che cerca in questo modo di esorcizzarli e assimilarli fino in fondo: un autore diviso tra le glorie degli USA e la nostalgia di un Messico che lo ripudia, il Silverio di Bardo è protagonista di un racconto sognante che gioca con il linguaggio cinematografico attraverso l'onirismo. La propensione al simbolismo evidente - che finisce con lo svuotare di potenza immaginifica la pellicola - e l'uso massiccio della computer grafica si rivelano il perfetto punto di unione tra il passato ed il presente del regista, mentre alcuni temi personali vengono sviscerati con scarsa inventiva, ed un finale poco incisivo squarcia l'affascinante velo che nascondeva il cuore dell'opera. Un film imperfetto ma conturbante, Bardo è però inattaccabile sul piano tecnico grazie ad inquadrature indimenticabili, incastrate in lunghi ed emozionanti piano sequenza, ed una splendida fotografia che sfrutta al meglio la fantastica luce naturale del Messico.

7.5

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