Recensione Barbarossa (1965)

Alla Mostra del Cinema di Venezia la versione restaurata del capolavoro "ospedaliero" in costume di Akira Kurosawa, tre ore dolorose e intense solcate dal magnetico corpo attoriale di Toshiro Mifune.

Recensione Barbarossa (1965)
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La mostra del Cinema di Venezia omaggia uno dei film di Akira Kurosawa probabilmente più sconosciuti al grande pubblico nella sezione Classici restaurati. Parliamo di Barbarossa, fluviale opera che supera le 3 ore nella quale il maestro giapponese ha unito in un coraggioso connubio l'omonima raccolta di storie brevi Akahige di Shugoro Yamamoto (alla quale si ispira il plot principale) e più che velate ispirazioni al romanzo Umiliati e offesi di Fëdor Dostoevskij in una delle importanti storyline secondarie. Figura centrale (ma non predominante) del racconto è quella del personaggio, il cui soprannome dà il titolo al film, interpretato dal leggendario interprete del regista Toshiro Mifune: a causa però di problemi tra i due durante le riprese (e riguardanti la vera barba sfoggiata dall'attore, che gli impedì di girare altre pellicole nei due anni necessari alla realizzazione) questa loro sedicesima collaborazione finì per essere anche l'ultima.

Al di là della vita

Distretto di Edo, 19esimo secolo. Il giovane dottore Noboru Yasumoto, reduce da una delusione d'amore e tra i migliori medici della sua generazione, viene assegnato alla dismessa clinica del più esperto Dottore Kyojô Niide (soprannominato Barbarossa), che gestisce in condizioni di estrema precarietà un gran numero di malati. Yasumoto, che tutto si aspettava fuorché di finire in un posto del genere, dimostra subito una certa arroganza e si rifiuta di lavorare agli ordini del suo superiore. Giorno dopo giorno però, trovandosi sempre più a contatto con pazienti gravi e/o morenti, il ragazzo si accorge dell'estrema bontà di cuore di Barbarossa e comincia a provare egli stesso uno slancio emotivo verso le persone affidate alle sue cure. L'arrivo nella clinica di una ragazzina orfana, salvata da Barbarossa dalla vita in un bordello nel quale veniva maltrattata, darà ancora più forza alla maturazione morale di Yasumoto.

I vivi e i morti

Kurosawa traccia una via portante per impreziosirla con sentieri improvvisi e ricchi di nuove, struggenti, emozioni. Con Barbarossa il maestro nipponico continua il suo percorso in quell'umanesimo tipico della sua terra natia che aveva già esasperato nelle sue opere di ambientazione contemporanea: poco importa che qui il tempo sia da titolo in costume, giacché la centralità del tema rimane attuale anche ai giorni nostri e assume caratteri universali. Perché se è vero che si sfiora il rischio della retorica, rimane innegabile la densità delle storie ivi raccontate, pregne di un'intimità dolorosa che si apre ad esplosivi squarci di tenerezza, soprattutto nell'ultima parte con l'entrata in scena del personaggio della dodicenne Otoyo e dell'ancor più piccolo ladruncolo. Un'opera che guarda alla morte con una placida quiete, che sconfigge l'amarezza con la speranza in un percorso di rimorsi e di rimpianti e di scelte morali che donano nuova vita alle figure in gioco. Un vero e proprio, arduo, tour de force di maturazione a cui è sottoposto, inizialmente insofferente, l'impreparato Yasumoto, esperto di teoria ma a zero di pratica, le cui ambizioni inizialmente soffocano quell'umanità che non tarderà ad esplodere nelle oltre tre ore di visione. E se l'interpretazione di Yuzo Kayama, così come quella dei numerosi interpreti secondari, rimane da incorniciare, si erge ancora una volta maestosa la performance di Toshiro Mifune, alle prese anche con un lungo combattimento a mani nude, per nulla fuori luogo nel processo narrativo, che guarda al cinema chanbara di cui fu indiscussa leggenda.

Barbarossa La coppia Akira Kurosawa - Toshiro Mifune per un altro capolavoro dell'immortale regista nipponico. Barbarossa è un film ricco di umanità in una storia intrisa di dolore e speranza, qui armonizzate perfettamente da una regia mai tronfia o appagata che si concentra sulla potenza di emozioni dure e melanconiche di uomini prossimi alla dipartita o alla sofferenza. Ma in questo viaggio aspro e intenso, le cui tre ore scorrono con invidiabile naturalezza, vi è anche un incondizionato atto d'amore per tutto ciò che la vita può sì togliere ma anche regalare.

8.5

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