Recensione Babel

Fossero solo le lingue diverse l'ostacolo a comunicare...

Recensione Babel
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Un mitico alibi per tutti noi

Non c’è niente di più efficace per tacitare la propria coscienza che scaricare la colpa delle nostre inettitudini o mancanze su qualcun altro. E così, quando non abbiamo poi molta voglia di fermarci a riflettere su quali siano i rovelli, le istanze, le questioni irrisolte altrui, ci basta aprire il bestseller di tutti i bestsellers, la Bibbia, scorrerlo fino a Genesi, capitolo 11, 1-9, e rinfrescarci la memoria sull’argomento “torre di Babele”. Secondo il racconto, la mitica costruzione non soltanto sarebbe diventata, una volta portata a termine, lo strumento utilizzato dall’umanità per arrivare al cielo, ma anche e soprattutto il simbolo dell’unità e della comunione tra le genti: si narra, infatti, di come al tempo tutti gli uomini parlassero la stessa lingua, e insieme contribuissero, ognuno secondo le proprie possibilità, all’obiettivo comune. Ma Dio, per punire la superbia dei mortali (o, forse, per altri motivi a noi imperscrutabili, come spesso capita nell’ambito degli affari divini), escogitò un metodo indubbiamente ingegnoso, tanto è vero che risulta valido ancora oggi, dopo millenni di storia e svariate possibilità di redenzione. L’idea geniale fu quella di far sì che gli uomini fossero costretti a parlare lingue diverse, in modo da interdire ogni forma di comunicazione, e quindi il completamento della torre. Beh, non è certo colpa nostra se Dio ha condannato i nostri fieri antenati a risultare incomprensibili gli uni per gli altri. Quindi, perché buttarsi in una lotta impari contro un destino ereditario che ci vuole disuniti?

Disavventure forse educative

Un dolente punto d’incontro tra tutti gli esseri umani è però la presenza continua e costante, durante il corso di tutta l’esistenza, dei problemi quotidiani. Ovviamente commisurati allo status socioeconomico, alla collocazione geografica e alla propensione caratteriale dell’individuo in questione: e così, per evitare che gli sciacalli si rendano troppo pericolosi per il proprio gregge di capre, un pastore marocchino compra da un amico un fucile da dare in dotazione ai suoi due figli poco più che bambini; due coniugi americani belli e ricchi scelgono una vacanza alternativa per risollevare una relazione in crisi; una badante messicana vorrebbe partecipare al matrimonio del figlio, ma non può abbandonare i ragazzini che le sono affidati; e un’adolescente sordomuta vaga per Tokyo con le pudenda in bella mostra allo scopo di attrarre ogni possibile partner sessuale, onde liberarsi del pesante fardello della propria verginità. Niente farebbe supporre un collegamento tra le vicende, se non fosse che uno dei due imberbi caprai, per dare prova della propria abilità al fratello, si metta per gioco a sparare contro un pullman di turisti, ferendo giustappunto la già psicologicamente provata mogliettina. Bloccata nell’inospitale deserto marocchino, in attesa di un elicottero dell’ambulanza, o forse dell’ambasciata americana che nel frattempo non si è lasciata sfuggire l’occasione di paventare l’ennesimo attentato terroristico, la coppia non potrà fare ritorno dai figli, che si improvviseranno invitati al matrimonio oltre confine del figlio della propria tata, salvo poi incorrere in qualche problemino al momento del rimpatrio. Mancherebbe un ultimo tassello per completare la rete di correlazioni tra gli eventi, quand’ecco che puntualmente si viene a scoprire come il fucile incriminato fosse stato tempo prima di proprietà del padre della giovane sordomuta, la cui vicenda si rivela ancor più tragica una volta appreso del suicidio della madre, risalente a qualche anno addietro. Cosa succederà ai due ragazzini, una volta confessato al padre il gesto sconsiderato? Saranno effettivamente responsabili della morte di una persona, o prima o poi le beghe burocratiche verranno risolte e il tanto agognato elicottero verrà inviato? Riuscirà la sollecita badante a riportare a casa sani e salvi i due bambini, ignari della disavventura della madre? Che ne sarà dei disperati tentativi di Chieko di farsi notare, cercando di infrangere la barriera costituita dal proprio handicap?

La morte non è nel non poter comunicare, ma nel non poter più essere compresi

E’ chiaro che tutte queste domande necessitano di risposte. E lo spettatore queste risposte le vuole. D’altra parte un film che non solleciti curiosità per l’epilogo della vicenda e non faccia entrare i propri protagonisti in empatia con i presenti in sala, è un film che fallisce nel suo intento più ovvio. Ma mentre il nostro sguardo attento viaggia da un continente all’altro inquadratura dopo inquadratura, abbacinato dal contrasto violento tra le atmosfere caotiche della Tokyo metropolitana e la sconcertante, pallida monotonia del deserto marocchino, soffermandosi a tratti su un Messico caldo e nostalgico, velato di malinconia, è per noi stessi che ci angosciamo. Perché vediamo nell’impotenza, nell’indifferenza o nella codardia dei protagonisti lo stesso atteggiamento di chi abbiamo di fianco, o, a voler essere veramente attenti, che abbiamo anche noi. Eppure, ognuno certo con le proprie limitatezze, è tutta “brava gente”. Come lo siamo noi. Ci comportiamo ogni giorno al nostro meglio, non faremmo mai del male alle persone a cui vogliamo bene. Anzi, cerchiamo di dimostrare il nostro affetto in ogni modo, con una parola, un abbraccio, un regalo. Come Richard che porta Susan in vacanza, come il padre di Chieko che guarda la figlia giocare a pallavolo, come Amelia che tutte le notti aspetta seduta sul bordo del letto che Debbie si addormenti. Eppure Susan non fa che recriminare, Chieko è pronta a buttarsi tra le braccia di chiunque per un misero surrogato di affetto, Debbie e il fratello addirittura rischieranno la vita per il legittimo desiderio di Amelia di presenziare alle nozze del figlio. Di chi è la colpa allora? Ci sono, in effetti, colpe da dare? E’ facile vederle nell’atteggiamento dei compagni di viaggio di Richard e Susan, che non esitano ad abbandonarli in uno sperduto villaggio pur di proseguire il proprio tour (come è facile vedere la generosità della guida che per ore intere ha assistito la donna americana, che rifiuta qualunque compenso tranne la gratitudine), così come in quello della polizia marocchina che spara contro un bambino, nel nipote di Amelia che lascia lei e i ragazzi del deserto per sfuggire alle autorità di frontiera, nei giovani che prendono in giro Chieko solo perché non può sentire. Ma non sono queste le cose che fanno male, perché non è dagli estranei che vorremmo essere capiti. Il vero dolore ce lo dà chi ci sta vicino e non vede la nostra sofferenza, ce lo diamo noi stessi che non siamo in grado di esternarla a chi la potrebbe mitigare e che men che meno siamo in grado di cogliere quella altrui. Il nodo da sciogliere è questo, e in fondo sta quasi tutta qui la fatica di essere umani. Iñárritu è uno di quelli che questa fatica la sa descrivere bene, e se per il regista messicano una potente forza (ri)unificatrice è quella della sofferenza, fisica quanto spirituale, è pur vero che non sempre il lieto fine è dietro l’angolo. Al contrario, la meritocrazia non trova spazio facilmente, nelle esistenze di celluloide come, ancora una volta, in quelle reali, e può accadere che proprio chi meno ha da imparare si trovi costretto ad affrontare le sfide più difficili, forse a significare che, in effetti, non esiste una meta a cui si debba per forza arrivare, ma sono la fatica e il dolore di tutti i giorni a darci il coraggio e la volontà di proseguire. Iñárritu ha una maniera tutta particolare di veicolare i propri messaggi, intrecciando le diverse (ma con una matrice mai così comune) vicende grazie ad un montaggio sapiente e una regia curata, fatta di assonanze e morbidi passaggi come di contrasti improvvisi e stridenti. In questo lo aiuta una colonna sonora di ottimo livello, che senza risultare troppo invasiva si rivela essere un medium efficacissimo nel dimostrare come la comunicazione possa servirsi di ben altri mezzi che non le semplici parole. Tutto il cast si rivela all’altezza della situazione, a partire da Adriana Barraza e Gael García Bernal, vecchie conoscenze del regista messicano, fino alla coppia Brad Pitt - Cate Blanchett (protagonisti di una delle scene di riconciliazione più toccanti degli ultimi tempi), senza dimenticare la bravissima Rinko Kikuchi, che ci offre, grazie ad un’interpretazione di grande intensità, uno scorcio tutt’altro che banale su una percezione della realtà (quella dei sordomuti) ai più altrimenti ignota.

Babel Non è un film facile, Babel. Perché se ci offre la speranza di averne identificato il senso nella difficoltà della comunicazione verbale, e quindi nella necessità di trovare altre strade per farci capire, ci getta poi nello sconforto mettendoci di fronte al fatto che la vera babele non si sostanzia tanto nel mezzo, quanto nella nostra natura di uomini. Si può imputare a Iñárritu di essersi fossilizzato sul proprio stile, creando persino collegamenti un po’ pretestuosi in modo da far quadrare il tutto, ma non è detto che anche sotto una costruzione artificiosa non si possano ugualmente scoprire profonde verità su noi stessi.

8.5

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